Come può reggere il cessate il fuoco di cristallo tra Israele e Hezbollah

Micol Flammini

Yuli Edelstein ci spiega perché è diversa la guerra in Libano e nella Striscia di Gaza, i piani di Israele e come le democrazie possono proteggersi a vicenda (a cominciare dal contrastare l'Iran)

Il cessate il fuoco di cristallo a cui Israele e Hezbollah hanno aderito non è ancora un accordo, ma lo diventerà nel momento in cui, trascorsi i primi sessanta giorni, quel che rimane del gruppo  armato sciita si sarà ritirato a nord  del fiume Leonte, Tsahal avrà lasciato il territorio libanese, l’esercito regolare di Beirut con un numero di oltre cinquemila truppe si sarà dispiegato nella fascia del Libano che confina con Israele e le istituzioni libanesi si saranno ristabilite. Per fare in modo che il cessate il fuoco da progetto diventi un accordo ci vorrà un presidente pronto a firmare.  Da anni il Libano non ha un capo di stato: va scelto tra i cristiani maroniti e finora Hezbollah ha ostacolato il processo decisionale, pretendendo un candidato alleato al Partito di Dio. Rispetto al 2006, anno dell’ultimo conflitto tra Israele e il gruppo armato,  un dettaglio rilevante può rendere molti errori irripetibili: Hezbollah ha subìto un colpo duro, la sua catena di comando è dispersa, un leader carismatico e incendiario non esiste più, molte delle armi sono state requisite o distrutte. 


Rimane però la consapevolezza che Hezbollah non ha cambiato natura. “Non c’è modo di sapere se  il cessate il fuoco funzionerà o meno”, Yuli Edelstein come tutti in Israele non è pronto a sbilanciarsi. Politico del Likud, ex presidente della Knesset, il Parlamento israeliano, e oggi a capo della commissione Esteri e Difesa, guarda al futuro del paese dosando la speranza con il realismo. Edelstein indica un altro elemento del cessate il fuoco che può fare la differenza rispetto al passato: “Per Israele era importante avere libertà di azione in caso di violazioni da parte di Hezbollah. Il resto, se agire o meno, dipende tutto dalla determinazione del governo israeliano: se anziché intervenire  al primo segnale di violazione, l’esercito lascerà trascorrere uno o due anni, allora avremo lo stesso Hezbollah che abbiamo conosciuto. Non cambierà da solo, l’unica opzione è contenerlo ed evitare che torni al potere”. Il cessate il fuoco ha destato critiche severe da parte dei cittadini del nord di Israele, evacuati da oltre un anno, ora dicono di non sentirsi pronti a tornare nelle loro case perché non vedono abbastanza garanzie. “La risposta non è stata positiva – ammette Edelstein – probabilmente i cittadini aspetteranno, vedranno se il cessate il fuoco reggerà e poi decideranno”. Non si è mai parlato dell’eliminazione totale di Hezbollah, dall’inizio dell’operazione di terra, l’obiettivo dichiarato di Israele è sempre stato di smantellare al meglio la sua capacità militare, ma non è mai stata promessa una caccia uomo per uomo, missile per missile, come invece l’esercito dice ancora di voler fare nella Striscia di Gaza: “Non possiamo agire senza tenere presente che mentre Hamas non è parte del sistema politico di un paese, Hezbollah è un partito di uno stato sovrano, indipendentemente dal fatto che per me e per molti rappresenti un’organizzazione terrorista. Non è realistico smantellarlo, è realistico privarlo della sua capacità di colpirci”. Per eliminare tutto quello che rimane di Hezbollah, Israele avrebbe dovuto condurre un altro tipo di guerra: “Non si può però pensare di essere allo stesso punto del 2006, Hezbollah è stato seriamente indebolito, in passato non era accaduto a questo livello. Poi abbiamo la capacità di apprendere dagli errori del passato sulla risoluzione 1701 che, diciotto anni fa, sembrava un bel pezzo di carta che faceva contenti tutti ma in termini di implementazione lasciava a desiderare”. La vera differenza tra la pace e la guerra, però, non può farla Israele da solo e Edelstein abbandona il realismo  per la speranza mentre dice: “Non tutto dipende da noi. Non è Israele che può mettere in carreggiata il Libano, un paese fallito, con una crisi profonda di cui nessuno ha avuto il coraggio di occuparsi. Non può essere considerato un paese perduto, la comunità internazionale deve usare l’opportunità per dare nuova vita alla politica, serve un presidente, ha bisogno di un vero governo, non di una situazione caotica in cui i gruppi come Hezbollah possono prosperare. Non ci si può accontentare dei governi marionetta: tutto parte da lì”. Alle armi va fatta seguire la politica, per arrivare alla politica serve una cura internazionale, in un momento in cui Israele ha un premier con un mandato d’arresto spiccato dalla Corte penale  con l’accusa di crimini di guerra. “E’ la prima volta nella storia che accade a un leader democratico e il messaggio non è soltanto per Israele. Ma la decisione della Corte va letta con attenzione, è un messaggio per tutti i paesi democratici. Io non appartengo alla scuola di chi dice di gettare via le istituzioni internazionali. Per me sono importanti. Ma bisogna rendersi conto del cambiamento potente a cui siamo di fronte: noi paesi democratici conosciamo le regole e le applichiamo, ma le istituzioni stanno finendo sotto il controllo di paesi o gruppi che non rispettano le leggi democratiche, non credono nella libertà di parola, non rispettano la libertà di stampa, sopprimono il diritto di protesta ma sanno benissimo come usare le leggi del gioco democratico per raggiungere i loro obiettivi. La decisione della Cpi ha mandato in confusione i paesi democratici e la confusione è il sintomo di una parte di mondo, il nostro, che si rende conto che non può ballare la musica che vogliono gli altri”. La confusione è sintomo di una dissonanza, della percezione, non sempre manifesta, di una pericolosa stranezza. 
E’ a volte complicato chiedere a un israeliano di commentare la guerra in Ucraina e a un ucraino di commentare i fronti aperti contro Israele, c’è la tendenza legittima a scrivere una lista immaginaria dei conflitti prioritari. Edelstein invece rivendica di aver sempre pensato che fosse tutto parte della stessa storia. E’ nato in Ucraina quando era Unione sovietica,   si muove tra due mondi e racconta un episodio personale per spiegare quanto sia intenso il dialogo tra quello che accade in Ucraina e quello che accade in Israele: “Ero in visita a Kyiv e al ministero della Difesa mi proposero di andare a vedere i droni che avevano abbattuto. Mi  mostrarono i resti di un drone. Dissi: ‘Signori, lo conoscono bene’”. Era uno Shahed, uno dei droni iraniani usati da Mosca contro l’Ucraina e da Teheran e le sue milizie contro Israele. C’è un asse, ma Edelstein non crede che la collaborazione tra Russia, Iran, Corea del nord, Cina possa essere duratura, “non è una storia d’amore, si detestano”. Dalla loro hanno però la consapevolezza che gli Stati Uniti sono intenzionati a disimpegnarsi sempre di più al di fuori dei loro confini – “e con l’Amministrazione Trump sappiamo già che la tendenza rimane” – e Israele e Ucraina, senza il sostegno internazionale non possono fare tutto. “Non possiamo combattere da soli, ma non possiamo elemosinare aiuto” – Edelstein questa volta fa coincidere la speranza con il realismo – “Ma è realistico presumere che la comunità internazionale si accorgerà che l’Iran non è un pericolo soltanto per noi”. La soluzione c’è, dice Edelstein, ed è diplomatica nel caso dell’Iran: “Non è uno stato che vuole essere pariah, per fermarlo serve fare pressione”. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)