In Cina potrebbe esserci un altro ministro della Difesa epurato

Giulia Pompili

Anche il nuovo capo della Difesa di Pechino, l’ammiraglio Dong Jun, secondo il Financial Times sarebbe indagato per corruzione. Al sicuro c’è solo Xi Jinping. Tre prigionieri politici americani liberati, e un ultimo successo dell'Amministrazione Biden 

Ieri Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha risposto con una frase idiomatica in mandarino a chi le chiedeva se davvero il ministro della Difesa, l’ammiraglio Dong Jun, fosse sotto indagine anticorruzione. Ha detto, traducendo un po’ rozzamente: “Inseguono il vento acchiappando le ombre”, che vuol dire: tirare fuori accuse infondate. Quando i funzionari cinesi ricorrono alla retorica poetica per rispondere a domande precise, di solito lo fanno per lasciare aperta l’interpretazione, e non confermare né smentire. Ieri Demetri Sevastopulo, giornalista del Financial Times autore di numerosi scoop legati alla Repubblica popolare cinese, citando diverse fonti americane anonime ha scritto per primo che l’ammiraglio Dong Jun, nominato ministro della Difesa neanche un anno fa, sarebbe sotto indagine e quindi sospeso.

 

Se confermata da Pechino, la notizia della rimozione di Dong Jun sarebbe clamorosa: Dong sarebbe infatti il terzo, tra ministri ed ex ministri, rimosso ufficialmente per corruzione, un’accusa che in Cina può voler dire tutto e niente, e corrisponde spesso a quella zona grigia che in epoca sovietica serviva per le purghe dei funzionari caduti in disgrazia, e di quelli che non si allineavano al pensiero del leader. Ma l’allontanamento di Dong ci dice anche qualcos’altro: a causa dell’assenza di trasparenza della leadership cinese, i cittadini e gli osservatori internazionali, i diplomatici, chiunque debba avere un dialogo politico con l’esecutivo di Xi Jinping è completamente all’oscuro di quello che sta davvero succedendo all’interno delle Forze armate di Pechino. E in una fase globale come questa è un problema. Il ruolo del ministro della Difesa in Cina non è esecutivo – il pieno potere operativo è nelle mani del presidente della Commissione militare centrale, cioè Xi Jinping medesimo – ma è una faccia, un simbolo e un diplomatico. Ci è voluto molto lavoro, per l’Amministrazione Biden, per rimettere in piedi i colloqui militari che Pechino aveva chiuso con Washington nell’agosto del 2022 dopo la visita della speaker della Camera Nancy Pelosi a Taiwan. Per l’intelligence internazionale l’ennesima purga anticorruzione di Xi è il segnale di quanto poco sappiamo di quel che succede nei corridoi del potere di Zhongnanhai, e soprattutto nella strada che divide il Zhongnanhai (considerato il centro del potere politico di Pechino) e il palazzo Bayi al numero 7 di Fuxing road, il luogo che ospita la Commissione militare. 

 


A giugno scorso il Partito comunista cinese ha espulso ufficialmente dai suoi ranghi Wei Fenghe e Li Shangfu. Wei era stato nominato ministro della Difesa nel 2018, dopo aver guidato il corpo delle Forze missilistiche cinese, che supervisiona l’arsenale di missili a lungo raggio e le armi nucleari a disposizione di Pechino. Nella seconda metà del 2022 in molti capirono che qualcosa non andava perché Wei non partecipava più a eventi pubblici, era scomparso dalla circolazione. Dopo diversi mesi di assenza, Wei fu sostituito da Li Shangfu, ex capo del dipartimento per lo Sviluppo delle attrezzature della Commissione militare centrale, ma a metà settembre dello scorso anno sempre il Financial Times anticipò la notizia della sua rimozione, di nuovo con accuse di corruzione. Nello stesso periodo, erano stati rimossi anche i due generali più importanti delle Forze missilistiche dell’Esercito popolare, che supervisiona l’arsenale di missili a lungo raggio e armi nucleari, e il ministro degli Esteri, Qin Gang. Dong Jun era stato messo a capo della Difesa cinese soltanto a dicembre dello scorso anno, e l’ultima volta che è apparso in pubblico è stato la scorsa settimana, alla riunione dei ministri della Difesa dell’Asean in Laos. Di quell’evento si era parlato parecchio, perché l’ammiraglio Dong aveva rifiutato un incontro con il ministro della Difesa americano Lloyd Austin, a causa del via libera alla vendita di armamenti a Taiwan arrivato solo qualche settimana prima da parte di Washington. Lo scorso anno, quando era stato nominato ministro della Difesa, in una mossa inedita Dong Jun non era stato fatto diventare membro della Commissione militare centrale, lasciando aperti dubbi sulla sua tenuta. 


Se Dong Jun non aveva voluto parlare con Austin, la conversazione più importante, quella avvenuta il 16 novembre scorso fra il presidente americano uscente Joe Biden e il leader cinese Xi a margine dell’Apec di Lima, ha avuto i suoi effetti. Come anticipato da questo giornale, quel colloquio serviva a Biden per il suo ultimo successo diplomatico con Pechino: la Cina ha rilasciato ieri i cittadini americani Mark Swidan, Kai Li e John Leung, considerati ingiustamente detenuti in Cina. Nello stesso momento, il dipartimento di stato ha abbassato il rischio legato ai viaggi in Cina per i cittadini americani. Il messaggio di Biden – che sin dal suo insediamento ha fatto rilasciare 70 americani ingiustamente detenuti all’estero – è per la prossima Amministrazione: il dialogo, anche se a volte muscolare, minaccioso e apparentemente contraddittorio, può funzionare. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.