La fragilità del regime
Assad tenta di resistere alla catastrofe. L'Ue in silenzio
La mappa dei territori conquistati dalla coalizione di Fatah Mubin è più che raddoppiata. L’avanzata dei ribelli non ha colto di sorpresa solamente Bashar el Assad, ma anche gli altri paesi della regione, che stanno ancora capendo come reagire
Sono ore concitate per Bashar el Assad, impegnato in una lotta contro il tempo per chiamare a raccolta tutte le forze residue a sua disposizione, sia in Siria sia all’estero, per mettere in sicurezza il regime. Sembrerebbero confermate le voci che venerdì scorso davano il dittarore siriano a Mosca, per un incontro segreto con Vladimir Putin. Nessuna fuga in Russia però, così come sembra destituita di fondamento l’indiscrezione che ipotizzava un colpo di stato ordito dal capo dei servizi di sicurezza, Hussam Luqa. Dunque Assad resta a Damasco, dove ieri ha incontrato il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghci, che oggi a sua volta volerà in Turchia per incontrare il suo omologo Hakan Fidan. Nelle ultime ore i generali di Assad hanno organizzato la linea difensiva a nord di Hama, ma il costo pagato dal regime in appena cinque giorni di combattimenti è stato incalcolabile. La mappa dei territori conquistati dalla coalizione di Fatah Mubin, l’ombrello sotto cui si riuniscono le milizie islamiste e filo turche, mostra che l’area sotto il loro controllo è più che raddoppiata.
Mentre l’avanzata verso sud sembra avere leggermente rallentato attestandosi a Khan Sheikhoun, Saraqib e Maarat al Numan, i ribelli sono impegnati ora nella parte più complessa, cioè il consolidamento delle zone liberate. Ad Aleppo, ormai interamente sotto il loro controllo, è stata occupata anche l’Accademia militare. Per continuare a essere il cuore produttivo del paese e sfamare i residenti, la città ha bisogno di gasolio, approvvigionamenti e sicurezza. Non sarà semplice garantirli. A est è entrato in scena l’Esercito nazionale siriano, che mette insieme le milizie filo turche e che tenta di approfittare del caos per conquistare Tal Rifaat e sottrarla al controllo delle milizie curde, sostenute dagli americani. Anche in questa fase delicata, Abu Muhammad al Julani si conferma “regista” indiscusso. Le milizie ispirate all’islam radicale di Hayat Tahrir al Sham (Hts) hanno consolidato il controllo nella provincia di Idlib e hanno conquistato almeno quatto basi aeree del regime, con tanto di jet ed elicotteri abbandonanti dai soldati in fuga.
I comunicati di Hts continuano ad avere toni moderati e inclusivi, soprattutto nei confronti delle minoranze etniche e religiose. Jolani sa di avere la fama di un leader jihadista che in passato non ha esitato a impiegare metodi brutali contro oppositori e nemici. Ora invece si professa accomodante con i cristiani e con le comunità armene – “i luoghi di culto e la libertà di ogni professione di fede saranno difesi”, ha assicurato – e persino con i curdi, a cui ieri ha garantito protezione se vorranno restare sotto il controllo dei ribelli sunniti. “L’islam ci ha insegnato la gentilezza e la pietà, siate un modello di tolleranza e perdono”, ha detto in un messaggio ai suoi uomini. “Vi considero responsabili di come rappresenterete la rivoluzione. Costruite ciò che il popolo siriano ha atteso per anni”. Il tempo dirà se la moderazione di Julani sia un bluff o meno.
L’avanzata dei ribelli non ha colto di sorpresa solamente Assad, ma anche gli altri paesi della regione, che stanno ancora capendo come reagire. La Russia ha rimosso Sergei Kisel, il comandante delle operazioni in Siria, per non avere saputo arginare l’offensiva – Kisel per altro era stato inviato qui nel 2022 da Putin come punizione per i suoi fallimenti al fronte di Kharkiv, in Ucraina. Hezbollah è in rotta in Libano ed è talmente indebolita in Siria da avere abbandonato le basi del nord-ovest. Per Israele, l’ipotesi di una caduta di Assad ha il sapore agrodolce di vedere sconfitto un nemico odiato ma allo stesso tempo fragile e facilmente controllabile con il rischio di vedere al suo posto un gruppo di terroristi islamici. Anche per la Turchia, spesso dipinta come sostenitore di Hts, la prospettiva di un regime change a Damasco è gradita da un lato e temuta dall’altro. La liberazione del nord-ovest della Siria e in particolare di Aleppo potrebbe permettere a migliaia di profughi siriani fuggiti in Turchia in questi anni di tornare alle proprie case. Ma d’altra parte, Recep Tayyip Erdogan non ha mai considerato Jolani un partner affidabile. Secondo molti esperti, è probabile che all’inizio Ankara abbia dato luce verde ai ribelli per lanciare l’offensiva, ma non si aspettasse che il regime siriano andasse in rotta con tanta facilità lasciando nelle mani di Hts un territorio così ampio. Gli Stati Uniti si sono limitati a smentire le accuse rivolte dall’Iran di avere orchestrato la rivolta, mentre l’Ue resta ancora – incredibilmente – in silenzio. I diplomatici europei presenti a Damasco (tra cui c’è l’ambasciatore italiano) si sono incontrati per un vertice ristretto in cui si sono scambiati informazioni. Con un Assad mai così debole, la strada della normalizzazione con il regime siriano, intrapresa con convinzione dal nostro paese solo alcuni mesi fa con la promessa di rimpatriare i profughi nel paese, potrebbe già condurre a un vicolo cieco.