Che fine fanno i generali russi in Siria

Micol Flammini

Prima venivano mandati a proteggere Assad per fare pratica, negli ultimi tempi andavano a svernare dopo i fallimenti in Ucraina. Surovikin, Kisel e Chajko, carriere incorociate tra Aleppo e Kyiv

La Siria è stata un campo di addestramento per russi, iraniani e milizie alleate. In Siria è iniziata anche la collaborazione gomito a gomito  fra esercito russo e combattenti mercenari della Wagner, il cui ex leader Evgeni Prigozhin, ucciso  lo scorso anno mentre volava a bordo del suo aereo privato nei cieli della regione di Tver’,  aveva mostrato al Cremlino come i suoi uomini potessero combattere le guerre nascoste di Vladimir Putin, arrivare dove i soldati regolari non riuscivano ad arrivare, riportare successi sul campo di battaglia.

L’esperimento di collaborazione con la Wagner ha dimostrato efficienza, alcuni generali russi hanno imparato a conoscere Prigozhin e chi voleva fare carriera in Russia aveva ormai capito  che doveva prima mostrare di avere successo in Siria. Il paradigma è rimasto immutato fino a quando Putin non ha disposto l’invasione totale dell’Ucraina per la quale aveva bisogno che i metodi siriani venissero utilizzati contro il paese confinante. Poco prima  che i missili russi attaccassero Kyiv, l’ex ministro della Difesa Sergei Shoigu era andato proprio in Siria, accompagnato da esperti e da un arsenale potente. Probabilmente con l’alleato siriano non aveva  menzionato la decisione di Mosca di lanciare l’“operazione militare speciale” contro l’Ucraina.  A invasione avvenuta però, la dimostrazione di potenza di Shoigu serviva anche a rassicurare il regime di Damasco che la protezione del Cremlino non sarebbe venuta meno – probabilmente nei giorni della visita in Siria, l’ex ministro era anche sicuro che in tre giorni l’esercito ucraino sarebbe crollato senza troppo dispendio militare da parte della Russia. Dopo i primi fallimenti dell’esercito russo in Ucraina, dopo la prima controffensiva di Kyiv per liberare l’oblast di Kharkiv, il ministero della Difesa russo aveva deciso di cambiare la catena di comando e, per guidare l’“operazione speciale”, aveva scelto di concentrare il potere di tutte le Forze armate nelle mani di un generale che nell’esercito era noto con due appellativi: il generale Armageddon o il macellaio di Aleppo. Il generale Sergei Surovikin era diventato famoso in Siria per il suo metodo di non dare tregua ai nemici, di sfiancarli con bombardamenti continui, ossessivi, distruggendo tutto quello che serviva distruggere per ottenere la resa. Arrivato a capo delle Forze armate di Mosca, in Ucraina applicò lo stesso metodo: con lui iniziarono gli attacchi alle centrali elettriche e la strategia di lasciare l’Ucraina al buio. Poi Surovikin venne destituito, al suo posto venne nominato il capo di stato maggiore Valeri Gerasimov e il generale Armageddon si ritrovò immischiato nella marcia di Evgeni Prigozhin verso Mosca: i due si capivano dalla Siria, Surovikin appoggiava l’idea del capo della Wagner di chiedere le dimissioni di Shoigu e Gerasimov, ma non immaginava quanto Prigozhin sarebbe arrivato lontano. Anche l’impresa di distruggere Mariupol, la città sul Mar d’Azov che aveva resistito bombardata dall’aria, dalla terra e dal mare per più di un mese  sotto assedio dell’esercito di Mosca, era stata affidata a un ufficiale che aveva fatto carriera in Siria e che politicamente era stato più abile di Surovikin: Mikhail Mizintsev, l’uomo che diede l’ordine di non dare tregua alla città delle acciaierie Azovstal, venne soprannominato il macellaio di Mariupol, poi venne richiamato a Mosca per servire dentro al ministero della Difesa, servì   comandante della Wagner dopo la morte di Prigozhin e infine si perse tra le epurazioni di Vladimir Putin. 


Bisogna tornare a Kharkiv però per capire come è cambiato il bilanciamento tra la Siria e l’Ucraina nelle priorità di Putin. Surovikin, il capo dell’aviazione a cui, ancora oggi, Mosca riconosce di essere stato efficiente nell’assalto contro Aleppo, venne nominato capo dell’“operazione speciale” dopo la disfatta russa nella regione ucraina di Kharkiv, dove con astuzia e agilità l’esercito ucraino era riuscito in un paio di giorni a mettere in fuga i russi. A capo delle forze a Kharkiv c’era Sergei Kisel, che non fu in grado di prevedere né contenere l’avanzata ucraina. Dopo il fallimento non venne licenziato ma mandato in Siria, dove è rimasto fino all’avanzata dei ribelli jihadisti. Mosca era convinta che la Siria fosse ormai una roccaforte nelle mani di Assad, non riteneva di dover portare generali di talento, semmai, uomini ai quali far prendere poche decisioni. Kisel, di fronte ai ribelli, infatti non ha preso decisioni, secondo l’intelligence ucraina la crisi delle forze russe sul campo è più profonda di quanto si sappia: Mosca ha perso uomini, armi e alcune unità sarebbero circondate. Kisel è stato rimosso, al suo posto è  stato nominato Aleksander Chajko, che aveva tentato la fortuna in Ucraina, gestendo l’avanzata contro la capitale Kyiv, ma fu tra gli autori del fallimento di fronte alla resistenza dei soldati ucraini aiutati dall’intelligence occidentale. Chajko ha esperienza in Siria, alcuni canali telegram vicini al ministero della Difesa russo lo chiamano “il liberatore di Aleppo”. Dopo il fallimento ucraino, anche il futuro di Chajko si gioca in Siria.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)