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Sul fronte

Kallas e Costa vanno in Ucraina e ribadiscono il whatever it takes anche in Georgia

David Carretta

Una visita “simbolica” in cui il nuovo presidente del Consiglio europeo e la neo Alto rappresentante per la politica estera hanno utilizzato espressioni che vanno ben al di là di quelle usate finora dai leader delle istituzioni dell’Ue, rischiando di essere contraddette

Bruxelles. António Costa e Kaja Kallas hanno messo un’asticella molto alta sul sostegno dell’Unione europea all’Ucraina di fronte alla guerra di aggressione della Russia e ai rischi legati al ritorno di   Trump alla Casa Bianca. Il nuovo presidente del Consiglio europeo e la nuova Alto rappresentante per la politica estera hanno scelto di trascorrere il loro primo giorno di lavoro a Kyiv, domenica, per dimostrare che l’Ucraina rimane la principale priorità dell’Ue. La visita è stata “simbolica”, ha detto ieri una portavoce della Commissione. Ma, oltre ai simboli, ci sono state parole che pesano. Sia Costa sia Kallas hanno utilizzato espressioni che vanno ben al di là di quelle usate finora dai leader delle istituzioni dell’Ue, appositamente studiate per riflettere il consenso tra i ventisette stati membri. Whatever it takes, tutto quanto necessario, ha detto Costa, facendo eco alle parole di Mario Draghi nel pieno della crisi del debito sovrano. E’ un passo in più dell’As long as necessary, fino a quando necessario, utilizzato finora. Kallas è andata oltre: “L’Ue vuole che l’Ucraina vinca questa guerra”, ha detto, e non ha escluso un futuro invio di soldati europei sul terreno. 

Il tono combattivo di Costa e Kallas sull’Ucraina ha stupito molti osservatori. Dopo la vittoria di Donald Trump alle  presidenziali americane, il clima nell’Ue è diventato cupo. Appena tornato alla Casa Bianca il presidente eletto potrebbe staccare la spina degli aiuti militari americani a Kyiv. La situazione sul campo di battaglia, dove la Russia continua la sua progressione, viene considerata da diversi diplomatici europei come “grave”. Il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, il principale alleato di Vladimir Putin nell’Ue, si sente rafforzato e legittimato nell’esigere un cambio di strategia sulla guerra da parte di Bruxelles. L’Ungheria con il suo veto continua a essere un ostacolo a diverse iniziative dell’Ue in favore dell’Ucraina. Le minacce nucleari di Putin intimidiscono alcuni paesi, a partire dalla Germania, che rimane il principale fornitore di aiuti militari e finanziari nell’Ue. La politica tedesca è in campagna elettorale in vista delle elezioni anticipate del 23 febbraio. La Francia, dove il governo di Michel Barnier potrebbe cadere dopo appena tre mesi in carica, è immersa in una crisi politica da giugno. Altri stati membri mostrano crescenti segnali di stanchezza. L’Ue e i suoi stati membri, inoltre, non sono stati in grado di mantenere alcune delle promesse fatte all’Ucraina, in particolare sul piano degli aiuti militari. Dai sistemi di difesa aerea alle munizioni, i ritardi si moltiplicano. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, nel fine settimana ha denunciato il fatto che gli alleati occidentali abbiano fornito equipaggiamenti per 2,5 brigate contro le dieci  brigate che Kyiv aveva chiesto.

In queste condizioni, le parole di Costa e di Kallas sollevano aspettative a Kyiv e interrogativi a Bruxelles. Gli europei sono determinati a fare da soli per sostituirsi agli Stati Uniti in caso di disimpegno dall’Ucraina? “Resta da discutere”, spiega al Foglio un diplomatico. Ieri il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha compiuto una visita a sorpresa nella capitale ucraina, dove ha promesso 685 milioni di euro di aiuti militari che saranno consegnati nel corso del mese. Ma, secondo molti osservatori, si è trattato di una mossa da campagna elettorale. La prudenza di Scholz e il suo rifiuto di fornire missili di lunga gittata Taurus contraddicono l’impegno del “Whatever it takes”. Di fronte alle reticenze della Germania e di altri paesi, il premier polacco, Donald Tusk, sta cercando di mettere in piedi una coalizione di volenterosi con la Francia, il Regno Unito, i paesi baltici e nordici. E’ in quel consesso che viene discussa l’ipotesi di inviare truppe europee sul terreno nell’ambito delle garanzie di sicurezza da fornire all’Ucraina in caso di cessate il fuoco. L’obiettivo sarebbe scoraggiare la Russia da una successiva ulteriore aggressione. Ma l’ipotesi non è stata discussa a livello di Unione europea. Secondo alcuni diplomatici di paesi prudenti, Kaja Kallas domenica ha parlato più da primo ministro dell’Estonia che da Alto rappresentante dell’Ue, quando ha detto che “non si deve escludere nulla” e occorre “mantenere una certa ambiguità strategica”.

Kallas ha compiuto un passo oltre quanto normalmente consentito all’Alto rappresentante anche sulla Georgia, quando ha minacciato sanzioni contro il governo per la repressione dei manifestanti pro europei e pro democrazia. I ventisette stati membri sono divisi sull’attitudine da tenere nei confronti di Sogno georgiano. L’Ungheria di Viktor Orbán non solo si è congratulata per la vittoria nelle elezioni contestate dall’opposizione, ma si oppone a qualsiasi ipotesi di sanzioni. “Condanniamo la violenza contro i manifestanti e ci rammarichiamo dei segnali del partito al governo di non voler proseguire  sulla strada verso l’Ue e dell’arretramento democratico del paese”, ha detto Kallas domenica. “Questo avrà conseguenze dirette da parte dell’Ue”.  Un portavoce della Commissione ieri ha chiarito che eventuali sanzioni saranno discusse dai ministri degli Esteri il 16 dicembre. Ma l’Ungheria è pronta a mettere il veto a misure contro Sogno georgiano o il governo, mentre altri paesi temono che la sospensione della liberalizzazione dei visti possa penalizzare e allontanare dall’Ue i georgiani ordinari. In attesa di una decisione di Bruxelles che potrebbe non arrivare mai, i tre paesi baltici hanno deciso di adottare sanzioni in modo autonomo.
 

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