Il regime dello status quo
La stabilizzazione di Assad non esiste
Molti in occidente (e in particolare in Italia) si sono illusi che non ci fosse più una crisi siriana, mentre Damasco restituiva i favori agli alleati russi e iraniani. I numeri di una normalizzazione inventata
A quasi quattordici anni dalla primavera siriana che fu repressa dal regime di Bashar el Assad – nel 2011 sciaguratamente considerato un moderato, qualcuno azzardò pure l’aggettivo “illuminato” soltanto perché Bashar non era stato formato per diventare il capo, non sapeva maneggiare nessuna arma, aveva studiato oftalmologia all’estero – la crisi umanitaria in Siria non è mai stata tanto grave: il 90 per cento dei siriani vive sotto la soglia di povertà, scrive sullo Spectator uno dei più importanti esperti del paese, Charles Lister, più del 50 per cento dei siriani è stato sfollato, e circa il 75 per cento ha bisogno ogni giorno di assistenza. Eppure gli aiuti internazionali veicolati dalle Nazioni Unite sono finanziati soltanto al 27 per cento. E il regime di Assad sta diventando il più grande narcostato del mondo: produce e vende illegalmente il Captagon, conosciuto come la cocaina dei poveri, guadagnando decine di miliardi di dollari che servono a tenere insieme in particolare il sistema di potere militare. Che pure, nel giro di pochi giorni, è stato sopraffatto nel nord del paese, in particolare ad Aleppo, da una avanzata jihadista che si stava preparando da tempo ma che nessuno si aspettava potesse essere così efficace e rapida.
Da anni, la Siria non è più considerata un’area di crisi, anzi la sua cosiddetta “stabilizzazione” – il termine che viene utilizzato da molti leader internazionali – ha portato alla riabilitazione dello stesso Assad, che è stato riammesso nella Lega araba. Molti paesi della regione hanno trovato nuovi canali di comunicazione con Assad, mentre gli europei – e in particolare il governo italiano – hanno enfatizzato questa presunta ritrovata stabilità perché è funzionale alla possibilità di creare zone a gestione onusiana in cui far rifluire i siriani che nel frattempo sono scappati in Europa e in Libano. Ma questa stabilizzazione non esiste.
“L’escalation dei terroristi – ha detto ieri Assad – riflette l’intenzione di dividere questa regione e i nostri paesi ridisegnando la mappa in linea con gli obiettivi degli Stati Uniti e dell’occidente”. In un’unica frase, il dittatore siriano ha ripetuto le parole chiave che lo hanno tenuto in piedi fino adesso, pur essendo da molti anni debole e dipendente dall’aiuto dei suoi alleati e dai soldi del traffico di droga: la lotta al terrorismo e l’aspirazione occidentale di ridisegnare a piacimento il medio oriente. La prima questione è quella che ha permesso ad Assad e al suo unico sponsor a lungo presentabile presso Europa e America, il presidente russo Vladimir Putin, di consolidare presenza e potere, alimentando l’illusione che si stesse combattendo la stessa guerra contro il terrorismo. La delega americana – allora il presidente era Barack Obama – alla regia di Mosca arrivò dopo la prima invasione russa in Ucraina, con conseguente annessione della Crimea, perché Washington si era data la priorità del “reset” con la Russia per occuparsi del “pivot asiatico” e voleva assolutamente credere che Putin avrebbe agito in Siria e nella regione difendendo un interesse collettivo, che pure il presidente russo aveva già ignorato cambiando a suo piacimento i confini dell’Ucraina. Fu un errore strategico e umanitario di proporzioni storiche, che aprì la strada all’alleanza di Putin con Teheran, che sancì un disimpegno colpevole dell’America in Siria e altrove, che – soprattutto – contribuì a creare l’illusione in cui si sarebbe poi cullato l’occidente.
Nel 2015, Assad accolse l’arrivo dei russi salvatori e, fingendo di combattere i terroristi, pose fine al dissenso dell’opposizione civile siriana: riempì le carceri (dove molti prigionieri morirono torturati), uccise chi poteva e costrinse alla fuga milioni di persone, che arrivarono in Europa (gli assadisti europei sono spesso anche esponenti di movimenti o partiti anti immigrazione: unite voi i puntini). Recuperata un po’ di solidità, ma non di prestigio, Assad iniziò a restituire i favori: i russi hanno potuto avere il tanto desiderato accesso al Mediterraneo occupando il porto di Tartus, gli iraniani, gli altri grandi sponsor del regime siriano, hanno potuto utilizzare il paese come centrale di coordinamento strategico-militare in particolare per il riarmo di Hezbollah in Libano.
La guerra civile in Siria – ci sono circa cento morti al mese, scrive sempre Lister – non è più stata considerata un’emergenza, il conflitto è stato considerato “congelato” e i cantori dello status quo, gli stessi che per quattordici anni hanno ripetuto che Assad era un elemento di stabilità – quando invece aiutava a cementare l’alleanza tra Iran e Russia che vediamo quotidianamente in tutta la sua ferocia contro gli ucraini – hanno pensato che si potesse ricominciare a interloquire con Damasco. Lo stesso Assad si è illuso, come dimostra il fatto che ha ridotto il proprio presidio militare nelle zone in cui ci sono i gruppi dell’opposizione – decisione che si è rivelata fatale in questi giorni.
Ieri la Reuters ha pubblicato un’esclusiva in cui si racconta che la diplomazia americana e quella degli Emirati Arabi Uniti da tempo (ma prima della conquista di Aleppo) stanno cercando di spezzare l’asse tra Iran, Russia e Siria provando a convincere proprio Assad a staccarsi da Teheran, in cambio di una riduzione delle sanzioni. Gli Stati Uniti hanno circa 900 soldati in Siria, nell’est e nel nord-est, lontani da Aleppo, per lo più dedicati a contenere le velleità terroristiche dello Stato islamico: nel mese di novembre, in queste zone c’è stato un aumento del 30 per cento di attacchi dei jihadisti del Califfato. Assad e i russi continuano ad avere il controllo del cielo siriano, ieri sono arrivate delle milizie iraniane a sostegno dell’esercito di Assad attorno ad Aleppo. Nelle ultime dieci settimane, ci sono stati una trentina di attacchi contro le forze americane da parte dei gruppi sostenuti dall’Iran.