Donald Trump con Elon Musk (foto Ap, via LaPresse)

In America

Dove sta il limite della fissa di Trump per lo small government  

Giulio Silvano

Cosa può fare il Doge di Elon Musk. Intervista a Sam Tanenhaus e a una funzionaria che i tagli li ha fatti davvero

Prendendo spunto da un celebre meme internettiano, Elon Musk ha deciso di dare il suo contributo alla prossima Amministrazione di Donald J Trump. Come consigliere senza stipendio si è incoronato a capo di un nuovo pseudo-dipartimento governativo: il Doge (Department of Government Efficiency), un ministero per l’efficienza dello stato, in pratica un modo per tagliare i costi. Ma, dice al Foglio Sam Tanenhaus, giornalista e storico, ex direttore della New York Times Book Review, “Musk e il suo collaboratore Vivek Ramaswamy non hanno un’autorità ufficiale. Questo ‘dipartimento’ in un’altra epoca sarebbe stato chiamato ‘commissione o comitato d’esperti’. I suoi membri consegnano un resoconto al presidente e lui annuncia i risultati in una conferenza stampa e poi cosa succede: poco e niente. E tutti sanno perché: è compito del Congresso passare le leggi”, e, dice lo storico, è difficile che 50 senatori votino a favore di molti tagli. Soprattutto per quanto riguarda le massicce spese statali che pesano sul budget: sistema previdenziale, assistenza sanitaria, sussidi di disoccupazione e aiuti ai veterani. E poi le spese militari. “Bernie Sanders ha già detto che è favorevole ai tagli militari, in quanto tra i membri più di sinistra del Senato, chiamato ‘comunista’ dai trumpiani”. Poi, dice Tanenhaus, prendiamo il caso di un solido alleato di Trump, il senatore Lindsey Graham. Il suo stato, la Carolina del sud, vive soprattutto grazie alle sue basi militari, quindi è difficile che Graham sia favorevole ai tagli. L’impeto deregolatorio di Musk si dovrà scontrare con la politica di palazzo e con il rapporto tra i singoli legislatori e la loro base elettorale. 

 

Musk, che ormai sembra vivere a Mar-a-Lago, la reggia trumpiana della Florida dove si balla Ymca assieme a Nigel Farage, ha postato sul social che ha contribuito a distruggere – l’X fu Twitter – una foto in stile Padrino di Coppola con la didascalia “Dogefather”. In un comizio in periodo elettorale, prima della vittoria repubblicana, il proprietario di Tesla ha detto che liberarsi della burocrazia e sfoltire il deep state è l’unico modo “per estendere la vita umana oltre la terra”, cioè per fondare la sua colonia su Marte. Musk, che vede il mondo come un videogame e il governo come un’azienda, ha annunciato di voler ridurre all’osso il budget federale, tagliando di 2 trilioni di dollari il budget di 6,7 trilioni e i suoi 2,3 milioni di dipendenti. Ma è possibile farlo? “Il numero di 2 trilioni è completamente irrealistico”, dice al Foglio Elaine Karmack, che sotto Bill Clinton aveva gestito i tagli statali con una National Performance Review dedicata a capire dove c’erano sprechi e dove si poteva investire. “Per raggiungere l’obiettivo che si è imposto Musk in uno o due anni”, dice la professoressa di Harvard, “bisognerebbe ridurre drasticamente o eliminare dei servizi federali essenziali, come il controllo del traffico aereo o la polizia di frontiera” e in entrambi i casi, riducendo il personale si creerebbe il caos. “E poi, considerato che gran parte del lavoro del governo non viene fatto da dipendenti pubblici ma da aziende appaltate, Musk, lui stesso a capo di società che ricevono appalti, cade in diversi conflitti d’interesse”. Dal sistema di internet satellitare Starlink alla ricerca aerospaziale di Space X, sono molti i miliardi pubblici in ballo per gli appalti di Musk. Su X, con il miliardario Ramaswamy, ex candidato alle primarie e nuovo braccio destro al Doge, Musk ha anche suggerito una possibile cancellazione dell’ora legale, mantenendo sempre la solita ora ed evitare il cambio bi-annuale a marzo e novembre. “E’ inefficiente e facile da cambiare”, ha twittato Ramaswamy. 

   

In molti nel dopoguerra hanno provato a ridurre la macchina governativa e l’esempio più virtuoso recente è quello dell’epoca clintoniana. Creando la National Performance Review Karmack era riuscita tra il 1993 e il 2000 a ridurre la forza lavoro federale di 426 mila unità. Tredici dei quattordici dipartimenti erano stati ridimensionati e “la forza lavoro governativa non era mai stata così esigua dai tempi dell’Amministrazione Eisenhower”. Erano stati risparmiati 126 miliardi di dollari. “Tagliare i costi dello stato nel modo giusto eliminando il non-necessario come sedi, manager, distaccamenti obsoleti, regole e formalità burocratiche sorpassate. Per esempio, tagliammo in tre anni 78 mila manager, 640 mila pagine di regolamenti interni, chiudemmo duemila uffici obsoleti ed eliminammo 250 programmi e agenzie come il Consiglio degli assaggiatori di tè, l’Ufficio delle miniere e i sussidi alla lana e al mohair”. Ma l’approccio di Musk, almeno fino a ora, sembra esageratamente ambizioso e semplicistico. Karmack dice che bisogna usare uno scalpello, non un’ascia. Non è una prerogativa dei repubblicani sprecare i soldi delle proprie tasse, ma c’è modo e modo di farlo. E poi, si chiede Tanenhaus, “gli elettori trumpiani anziani e poveri degli stati rossi sono pronti ad accettare un taglio ai loro sussidi?”.

   

Dal punto di vista ideologico, dice Tanenhaus, il grande taglio è sicuramente “un’idea attraente”, e, aggiunge, “non sono certo l’unico a restare sorpreso da quante persone sono impiegate in agenzie e dipartimenti che Trump ha promesso, o minacciato, di abolire. E si può dire che se Trump avesse un approccio serio (sottolineiamo se) e trovasse le persone competenti per farlo, potrebbe ottenere qualcosa che ogni repubblicano”, dalla Seconda guerra mondiale, “ha detto di voler fare: ridurre le dimensioni e il potere dello stato. E’ facile ora dimenticarsi che anche Ronald Reagan parlava di eliminare il dipartimento dell’Istruzione. E prima di lui Richard Nixon parlava di liberarsi di nemici ideologici, veri o immaginati, e rimpiazzarli con dei fedeli”. Trump non si è inventato niente, è solo più esagerato in tutto. “Anche il vicepresidente Dick Cheney, che conosceva bene come funziona il governo federale”, continua il Tanenhaus, “voleva ‘discendere’ nei meandri più profondi e rimuovere i dipendenti problematici”. Ma quindi Trump si vuole comportare per una volta da vero libertario? Rimpicciolire la macchina statale? “Nel caso di Trump – dice Tanenhaus – è meno una sfiducia libertaria verso il ‘big government’ e più un’avversione al modo in cui il governo è stato usato dai due partiti negli ultimi decenni, che fosse per perseguitarlo giudiziariamente o per portare avanti programmi che lui e i suoi sostenitori non vogliono, come quelli sull’immigrazione”. Liberale solo dove gli conviene. “Trump sarebbe contento di aumentare il potere delle agenzie e dei ministeri che portano avanti il suo piano politico”. Ed è per questo che molti lo paragonano a Nixon, perché anche lui “si appellava ai lavoratori e alla classe media, la ‘maggioranza silenziosa’, e ‘agli americani dimenticati’. Qui però è mescolato con un tocco di populismo à la George Wallace”, ex governatore segregazionista dell’Alabama. Ci si chiede se un partito che è stato mangiato dal mondo Maga, dove al potere sopravvivono solo sicofanti e famigli, possa ritrovare la sua strada in quello che dopo Lincoln è sempre stato il suo forte: l’economia. C’è la possibilità a un ritorno a “viva lo stato piccolo” senza populismi che danneggino quello che dello stato funziona bene? “In realtà”, ci spiega Tanenhaus, che ha appena finito di scrivere la  biografia sul padre definitiva del conservatorismo moderno, William Buckley, la linea trumpiana “è più vicina alla versione anni ’70 della nuova destra, concepita da populisti come Kevin Phillips, che denunciava le élite, chiamandole ‘la nuova classe’, o l’élite manageriale, come diceva James Burnham. Sono gli autori che oggi stanno riscoprendo negli ambienti della destra ‘post liberale’, sia i pensatori sia i politici come J. D. Vance”, prossimo vicepresidente degli Stati Uniti, che ha fatto carriera grazie ai post libertari tolkeniani della Silicon Valley. 

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