La crisi in francia
Macron esclude le sue dimissioni e fa un appello all'unità contro l'estremismo antirepubblicano
"I deputati del Rassemblement national e del Nuovo fronte popolare hanno scelto il disordine”, ha detto l’inquilino dell’Eliseo. Intanto la sinistra si divide sulla strategia da adottare e Le Pen dovrà dare spiegazioni a quel 30 per cento dei suoi elettori che non ha condiviso "la scelta del caos"
“Voglio ringraziare Michel Barnier per il lavoro svolto per il nostro paese, per la sua dedizione e per la sua combattività. Lui e i suoi ministri si sono mostrati all’altezza della situazione, mentre altri no”. Ha esordito con queste parole il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, alle 20, ha pronunciato un discorso alla nazione in diretta televisiva all’indomani della mozione di censura che ha fatto cadere il governo. Se Barnier è stato sfiduciato è perché “l’estrema destra e l’estrema sinistra si sono unite in un fronte antirepubblicano”.
E “perché alcune forze che ieri governavano la Francia hanno scelto di allearsi a loro”, ha dichiarato Macron, prendendo di mira, senza citarli, il Partito socialista e l’ex presidente della Repubblica, François Hollande. “I deputati del Rassemblement national (Rn) e del Nuovo fronte popolare (Nfp) hanno scelto il disordine”, ha aggiunto l’inquilino dell’Eliseo, prima di annunciare i suoi piani per far uscire la Francia dall’impasse istituzionale: “Darò l’incarico a un primo ministro di formare un governo di interesse generale”, ha annunciato. Dopo aver escluso nuovamente l’ipotesi dimissioni prima della fine del mandato, Macron ha dichiarato che, “prima di metà dicembre, verrà depositata una legge speciale in Parlamento”. Questa legge, ha sottolineato, “garantirà, come previsto dalla nostra Costituzione, la continuità dei servizi pubblici e della vita del paese. Applicherà al 2025 le scelte del 2024”.
La giornata era iniziata con le dimissioni di Barnier. L’ex capo negoziatore della Brexit per l’Ue si è recato all’Eliseo attorno alle 10 per incontrare il presidente della Repubblica. Che ha accettato le sue dimissioni e quelle del suo governo prima di ricevere la presidente dell’Assemblea nazionale, Yaël Braun-Pivet, e il presidente del Senato, Gérard Larcher, per ragionare sulle vie d’uscita all’impasse istituzionale. In mattinata, si era tirato fuori dalla corsa per Matignon il ministro delle Forze armate, Sébastien Lecornu, prodotto del gollismo diventato un fedelissimo del capo dello stato, che in molti vedevano come il profilo perfetto per guidare un ampio fonte repubblicano. “Non sono candidato a nulla”, ha detto in un’intervista a Rtl, smentendo di aver discusso di questa ipotesi con Macron durante la missione diplomatica in Arabia Saudita dei giorni scorsi. Prende dunque quota l’ipotesi François Bayrou, l’altro favorito, leader del MoDem, in rapporti cordiali con Marine Le Pen con cui condivide la battaglia per l’introduzione di una dose di proporzionale alle prossime elezioni. Bayrou ha pranzato all’Eliseo con Macron, e secondo alcuni osservatori avrebbe già dato la sua disponibilità per Matignon. Un articolo del Figaro pubblicato mercoledì sera subito dopo l’ufficialità della sfiducia a Barnier ha riferito di un presidente su tutte le furie contro il “fronte antirepubblicano” che si è andato a creare all’Assemblea nazionale, e in particolare contro i socialisti, giudicati irresponsabili per aver votato mano nella mano con gli estremisti lepenisti e mélenchonisti. “La vittoria dei rossobruni”, l’ha definita il settimanale Point. Ma a quale prezzo?
All’indomani della censura, il Nuovo fronte popolare è più diviso che mai sulla strategia da adottare: da una parte socialisti, comunisti ed ecologisti favorevoli a un “accordo di non-censura” per garantire stabilità alla Francia, dall’altra la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, ostile a qualsiasi forma di accordo con i macronisti. La leader dei Verdi, Marine Tondelier, ha invocato “un momento di unione nazionale”, Ian Brossat, portavoce del Partito comunista, ha avanzato l’ipotesi di un “patto sociale, repubblicano, con qualche linea rossa intangibile”, e Olivier Faure, patron del Partito socialista, si è detto pronto a “fare dei compromessi”. Raphaël Glucksmann, ex capolista dei socialisti alle europee e astro in ascesa della socialdemocrazia francese, si è spinto ancora più lontano, pubblicando un appello sul Monde affinché tutta le forze politiche che hanno sbarrato la strada al Rassemblement national alle ultime legislative, compresi i Républicains, il partito gollista, si uniscano in un grande fronte dei responsabili. Queste forze devono “riunirsi e confrontarsi sulle loro proposte per definire le convergenze possibili e i disaccordi persistenti”, ha scritto Glucksmann assieme all’eurodeputata Aurore Lalucq e al deputato Aurélien Rousseau, entrambi membri del suo partito, Place publique. Serve “una piattaforma minima, attesa oggi dalla maggioranza dei francesi, sul potere d’acquisto, le pensioni, la riduzione del deficit, la reindustrializzazione del paese, la transizione ecologica, la riforma del sistema del sistema elettorale e dell’architettura istituzionale”, ha sottolineato Glucksmann.
Da parte di Lfi, invece, nessuna apertura. Anzi. Mathilde Panot, capogruppo dei mélenchonisti all’Assemblea nazionale, ha minacciato “una rottura” con Nfp nel caso in cui gli altri partiti della coalizione accettassero di tendere la mano ai macronisti e ai gollisti. Marine Le Pen dovrà invece delle spiegazioni a quel 30 per cento dei suoi elettori, come evidenziato da un sondaggio Odoxa, che non ha condiviso “la scelta del caos”, ossia la sfiducia a Barnier dopo soli tre mesi dalla sua nomina.