Korean Drama. Le vere intenzioni del presidente Yoon e la minaccia che arriva da Nord

Giulia Pompili

Emergono sempre più dettagli sul golpe flop tentato dal presidente. Ma in questa storia tutto continua ad avere i contorni del mistero. O quelli del dramma grottesco di un uomo solo al comando. Sei ore di legge marziale in Corea del sud e una stagione politica che sembra una serie tv

Nel giro di poche ore, a Seul, nella capitale sudcoreana, è tornato per le strade tutto l’armamentario delle proteste: scatoloni con candele e striscioni, cestini del pranzo, signore impellicciate con zainetto e sedia portatile, scaldamani monouso – gadget popolarissimo che funziona come il ghiaccio secco, ed è utile per affrontare ore di vento gelido all’aperto – e la polizia con i gilet gialli che marcia, si sposta veloce, recinta e presidia i cortei. Del caos politico provocato martedì scorso dal presidente Yoon Suk-yeol, quando a sorpresa ha annunciato l’istituzione della legge marziale in tutta la Corea del sud, ritirata poi sei ore dopo, il primo aspetto che balza all’occhio dell’osservatore occidentale poco avvezzo alle dinamiche politiche asiatiche è l’organizzazione delle proteste. Ma è proprio così che i sudcoreani vivono la piazza praticamente tutti i giorni da quando hanno potuto iniziare a manifestare senza il rischio che qualcuno gli sparasse addosso, come avvenne nel 1980. La piazza a Seul è il luogo della pressione politica, ma anche un segnale di partecipazione, coordinato e organizzato dalle decine di sigle sindacali, lobby politiche e religiose, dalla miriade di associazioni della società civile. Ognuno ha qualcosa da dire e lo dice in piazza, quasi tutti i fine settimana, negli angoli delle strade o con sit-in e presidi, megafoni e volantini. Il tentativo di istituire la legge marziale del presidente Yoon Suk-yeol, sin da mercoledì mattina, ha canalizzato le energie dei (pochi) simpatizzanti e di quelli che chiedono contro di lui la messa in stato d’accusa.

   
Di legge marziale Yoon Suk-yeol aveva parlato qualche volta in passato, ma nessuno aveva previsto il suo colpo di mano martedì sera. “Un fiasco”, l’hanno definito diversi giornali anche conservatori, perché una mossa così maldestra non poteva essere davvero pensata per funzionare, in un paese dove l’attenzione per le norme costituzionali e democratiche è altissima. Tant’è che tra l’istituzione della legge marziale, l’annuncio pubblico di Yoon e il voto all’unanimità dell’Assemblea nazionale per eliminarla sono passate neanche tre ore. Lui stesso ha revocato la norma nel giro di sei. Ma in quel periodo di tempo parte delle Forze armate sudcoreane sono davvero entrate fisicamente nel palazzo del parlamento: 280 soldati secondo la stampa, arrivati con due elicotteri dentro al compound mentre altri sono entrati dal perimetro esterno. Park An-su, capo di stato maggiore dell’esercito, è l’uomo che avrebbe dovuto prendere in mano l’ordine pubblico dopo la proclamazione della legge marziale ma già ieri durante un’audizione parlamentare ha detto di aver eseguito degli ordini che aveva ricevuto soltanto pochi minuti prima, nel completo caos. I soldati di Park avrebbero dovuto “sospendere tutte le attività politiche” comprese quelle dell’Assemblea nazionale, ma non ci sono riusciti. E questo anche perché nonostante alcune immagini che resteranno nella storia – come quella della viceportavoce del Partito democratico, An Gwi-ryeong, che prende un soldato dal mitra e gli dice: “Ma non ti vergogni?” – i soldati non sapevano bene cosa fare. E la confusione si è unita all’assurdità di una richiesta che era stata fatta dal presidente a Hong Jang-won, vicedirettore dell’agenzia di spionaggio sudcoreana, il National Intelligence Service: arrestare tutti gli oppositori politici, compreso il presidente del Partito democratico della Corea, Lee Jae-myung, e il leader del suo stesso partito, Han Dong-hoon. Han ha cinquantuno anni, è leader del partito da un anno, e fino a due giorni fa diceva che il People’s Power Party avrebbe difeso dal processo di impeachment il presidente Yoon. Ieri però, dopo le notizie che continuano a uscire sul retroscena del colpo di mano di Yoon, ha cambiato idea: “È stato confermato”, ha detto, “che il presidente avrebbe usato le agenzie di intelligence militare per arrestare alcuni politici. Abbiamo anche appreso che c’erano piani specifici per imprigionare i politici in una struttura di detenzione a Gwacheon. Se in precedenza mi ero impegnato a lavorare contro l’impeachment per evitare il caos e proteggere il popolo e i sostenitori, visti i nuovi fatti che stanno emergendo, credo sia necessario sospendere immediatamente le funzioni del presidente per salvaguardare la Repubblica di Corea e il suo popolo”.

     
Il golpe non ha funzionato. Ma in questa storia tutto continua ad avere i contorni del mistero, su ciò che è successo martedì sera e sulle reali volontà politiche di Yoon nel prendere una decisione che lo avrebbe comunque condannato al fallimento politico. O forse era sicuro che il suo partito, pur di non perdere il potere, l’avrebbe protetto. Ma più passano le ore e i media indagano sull’emergenza di una notte, più esce fuori il ritratto di un uomo solo (i suoi compagni di partito hanno parlato davvero di “solitudine”), in preda a deliri di potere, che beve troppo, che ha corrotto e manipolato le informazioni per proteggere se stesso e sua moglie, Kim Keon-hee, che forse insieme a un manipolo di suoi fedelissimi – quasi tutti militari come si faceva un tempo, e appartenenti alla sua fazione – credeva di poter restare al potere ancora a lungo. Il primo capro espiatorio del caos di martedì notte è stato individuato in Kim Yong-hyun, ministro della Difesa nominato da Yoon poco più di due mesi fa, che si è dimesso l’altro ieri e ora non può lasciare il paese in attesa delle indagini. Si era inizialmente difeso dicendo che era una decisione sbagliata quella della legge marziale, ma poi è venuto fuori che forse era stato proprio lui l’ideatore della proposta. Secondo le prime indagini, a essere stati direttamente coinvolti nella caotica nottata ci sarebbero stati il comandante del controspionaggio della Difesa, Yeo In-hyung, il comandante delle Operazioni speciali Kwak Jong-geun e quello della difesa della capitale, Lee Jin-woo. Gli ultimi due hanno già smentito di aver partecipato al complotto.

   
In ogni caso la democrazia ha retto, il sistema ha retto, dicono oggi anche gli attivisti del Partito democratico, principale partito all’opposizione che due anni fa ha perso le elezioni contro il People’s Power Party del candidato a sorpresa Yoon. I democratici avevano governato per i quattro anni precedenti con Moon Jae-in, l’uomo del dialogo con la Corea del nord, della cosiddetta Sunshine policy, che a sua volta aveva vinto le elezioni nel 2017 dopo l’impeachment e la destituzione della presidente conservatrice Park Geun-hye – figlia di Park Chung-hee, militare e presidente – accusata di corruzione e, tra le altre cose, di essere stata manipolata dalle credenze sciamaniche. Ora si ricomincia tutto? E’ presto per dirlo. Quel che è certo è che Yoon Suk-yeol è il punto di non ritorno della politica sudcoreana, che inaugura oggi una delle sue fasi più complicate. 

   
A beneficiarne saranno di certo i political drama coreani, che sono un genere molto preciso nella gigantesca produzione cinematografica e televisiva della cosiddetta K-wave: scandali, tradimenti, manipolazioni, fazioni in competizione, complotti. Appunto: non sono soltanto fiction. La politica sudcoreana è fatta di potere ieratico, di personaggi che tramano, tessono costantemente reti d’interessi, costruiscono carriere politiche dietro le quinte e cambiano idea a seconda di accordi e patti segreti. È una continua sovrapposizione con quello che per noi è pura cinematografia: Yoon Suk-yeol è il presidente che nei dibattiti televisivi durante la campagna elettorale aveva un carattere hanja (i caratteri cinesi usati nella tradizione coreana) disegnato sul palmo della mano sinistra: il significato del carattere era quello di “re”, un talismano di buona fortuna nello sciamanesimo sudcoreano. In passato è stato criticato per via della sua vicinanza a un predicatore sciamanico chiamato Cheongong e un agopunturista anale senza licenza. Sua moglie Kim è finita al centro di uno scandalo gigantesco quando è stato pubblicato il video di lei sorpresa ad accettare una borsa di Dior del valore di oltre 3 mila euro da un pastore che aveva filmato di nascosto lo scambio: Yoon non si è mai scusato per quel potenziale tentativo di corruzione, anzi. Qualche mese dopo il presidente ha  nominato il suo ministro della Difesa, Lee Jong-sup, come ambasciatore in Australia: quattro settimane dopo Lee è stato costretto a dimettersi, dopo enormi sollevazioni popolari, perché sotto inchiesta, accusato di aver cercato di influenzare un’indagine sulla morte di un marine. Due giorni prima della dichiarazione della legge marziale, l’indice di gradimento di Yoon, anche tra i conservatori, era sotto al 19 per cento.

   
Da giorni fra chi segue la politica in Corea del sud si fa a gara per trovare il riferimento cinematografico o televisivo più convincente per rappresentare questo plot twist che in realtà è un episodio di metà stagione, perché l’azzardo della legge marziale di Yoon Suk-yeol arriva dopo diversi mesi di altri scandali lungo un percorso che va dal gravissimo al grottesco. I più drammatici in questi giorni parlano di “12.12: The Day”, il film dello scorso anno diretto da Kim Sung-su campione d’incassi. Racconta il colpo di stato militare del 12 dicembre 1979 da parte di Chun Doo-hwan, generale dell’esercito e poi presidente dal pugno di ferro, condannato quasi un decennio dopo la fine della sua presidenza per tradimento e insurrezione, e graziato poi dal presidente e premio Nobel per la pace Kim Dae-jung – che era stato fra gli oppositori politici che Chun voleva condannare a morte. L’espressione “legge marziale” in Corea del sud fa pensare sempre a quella di Chun doo-hwan: anche lui era ossessionato dalle spie comuniste e nordcoreane infiltrate nelle istituzioni, e qualunque manifestazione di piazza doveva essere in qualche modo collegata al tentativo di destabilizzazione della Corea del sud da parte di Pyongyang. Ai sudcoreani più adulti la notte fra martedì e mercoledì, quando Yoon ha dichiarato la legge marziale, ha ricordato gli studenti e i civili in piazza a Gwangju il 17 maggio del 1980, quando Chun mandò i carri armati a reprimere le proteste e dove si conquistò il soprannome di “macellaio di Gwangju”. 
E infatti nei giorni scorsi sui social coreani ha circolato molto l’audio di una telefonata avvenuta martedì notte fra un padre e suo figlio, un militare chiamato all’allerta subito dopo la dichiarazione dell’istituzione della legge marziale. Nell’audio si sente il padre con la voce rotta dalla paura che dice al figlio: “Ascolta, non c’entra nulla la Corea del nord, il presidente l’ha dichiarata unilateralmente. Qualunque cosa tu faccia, ricordati di proteggere la tua vita, i tuoi compagni, e di non fare niente che possa fare del male ai civili”. Nessuno ha mai saputo davvero quante persone il regime militare abbia ucciso nelle repressioni di Gwangju, ma basta leggere “Atti Umani”, della scrittrice premio Nobel per la Letteratura Han Kang, per capire quanto quella violenza abbia cambiato radicalmente la società sudcoreana e l’abbia trasformata in una democrazia fin troppo ossessionata dal suo sistema democratico. 

  
È anche per questo che quello di Yoon Suk-yeol è stato un fiasco annunciato. Eppure per circa mezz’ora la paura di una rievocazione di quei momenti ha terrorizzato i sudcoreani ancora svegli. Il primo pensiero, per un paese ancora tecnicamente in guerra con il Nord (nel 1953, per mettere fine alle ostilità della Guerra di Corea, fu firmato soltanto un armistizio, peraltro non sottoscritto dal governo di Seul) e con Pyongyang sempre più aggressiva, è stato quello della guerra. Ma la Corea del nord per una volta non c’entrava nulla, anzi era un mezzo. Secondo un comunicato stampa di Park Sun-won, segretario del Comitato per l’intelligence dell’Assemblea nazionale, e riportato ieri da NkNews, l’esercito sudcoreano ha messo in allerta le unità delle forze speciali per una “grave situazione riguardante la Corea del nord” poche ore prima che il presidente dichiarasse la legge marziale: come se il presidente avesse voluto cercare di rafforzare l’adesione alla legge marziale da parte delle Forze armate di fronte a una minaccia credibile. 

  
Ed è questo il vero problema della politica sudcoreana, che non è mai riuscita a uscire da anni di populismo, estremismi, sentimenti polarizzanti, teorie del complotto e fake news – come quella sui brogli elettorali che ci sarebbero stati nelle elezioni legislative del 10 aprile scorso, stravinte dal Partito democratico, e alle quali molti esponenti dei conservatori credono: sarebbe questo il motivo per cui martedì scorso Yoon avrebbe mandato alcuni uomini dell’esercito anche negli uffici della Commissione elettorale nazionale. Va di pari passo con le teorie più popolari all’interno del Partito democratico, che più che un partito di sinistra è un partito populista nel senso più tradizionale asiatico, generalmente pro Cina e contro il rafforzamento delle relazioni con l’America e la Nato. A fine ottobre, il leader dell’opposizione sudcoreana Lee Jae-myung, oggi potenziale candidato alla presidenza, commentando la notizia delle truppe nordcoreane in Russia ha detto che il governo sudcoreano non dovrebbe fare nulla “per non provocare un conflitto nella penisola”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.