Un uomo mostra la forca usata per le esecuzioni al carcere di Sednaya (foto Getty)

dopo il regime

Ecco l'orrore assadista, mentre i siriani ritornano nelle loro terre

Luca Gambardella

Julani mette un suo uomo alla guida della fase di transizione. Le cancellerie occidentali al lavoro per allacciare i contatti con Hts

Nel “posto più brutto della terra”, come lo chiamano i sopravvissuti, la vita dei reclusi continua come se fuori da lì, dal carcere di Saidnaya, non sia successo nulla. I monitor del centro di sorveglianza accesi mostrano i detenuti che fanno avanti e indietro nelle loro celle, mani in tasca, testa bassa. Non possono immaginare che fuori da lì  Assad è scappato, che il regime è caduto, che nelle piazze della Siria si festeggia un futuro tutto da scrivere. 

  

  

Una delle sezioni di questa imponente struttura, messa in piedi dal regime a qualche decina di chilometri da Damasco, è chiamata semplicemente “edificio rosso”. Dal 2011 sono reclusi qui migliaia di civili che avevano preso parte alla rivoluzione contro Assad. Sono le carceri della morte del regime, meglio note come la “macelleria di Bashar”.  I ribelli hanno preso il controllo di Saidnaya perché le Forze armate siriane, come nel resto del paese, sono fuggite. Lungo i corridoi, gettati per terra, restano le corde e le presse di acciaio sotto cui gli aguzzini schiacciavano le ossa di chi aveva osato dire o fare qualcosa di sgradito al regime. Oggi i carcerieri sono fuggiti ma hanno lasciato intrappolati i detenuti nelle loro celle, scavate sottoterra e rese inaccessibili al punto da rendere complicato per i ribelli anche solo capire come accedervi, come liberare tutti. Sui social si chiede aiuto a chi ha disertato dalla polizia militare affinché riveli i codici di accesso ai bracci del carcere per estrarre quegli uomini abbandonati. Nessuno sa con esattezza quanti di questi prigionieri politici siano rinchiusi a Saidnaya, ma si stimano 40 mila persone sparite nel nulla. In Siria le carceri come quella di Saidnaya sono diverse. Queste prigioni con i loro detenuti politici liberati e le loro storie sono  il vero simbolo del paese dopo Assad. Qui era stato confinato il fiore all’occhiello della società siriana più qualificata – politici, giornalisti, medici, ingegneri. 

 

 

Nelle città si festeggia, le statue del regime sono divelte, ma sono le strade del paese l’altro luogo iconico di quest’anno zero pieno di incognite. L’autostrada M5 che taglia il paese da nord a sud, da Aleppo a Damasco, è immortalata stracolma di auto in fila, in un traffico infernale. Sono gli esiliati da anni di guerra, costretti dalla repressione e dai combattimenti ad abbandonare le proprie case e le proprie terre. La vita in fuga del popolo siriano ha del paradossale. Un popolo che scappa da quasi 14 anni, prima dal regime, poi dalle milizie in guerra fra loro, dallo Stato islamico, da al Qaida, dai bombardamenti russi, dai turchi a nord. Molti di loro si riversarono in Libano, per poi fare ritorno in Siria, stavolta assieme ai libanesi, con l’inizio dei bombardamenti israeliani contro Hezbollah. Ora che Damasco è libera  eccoli tornare di nuovo, per quello che sperano possa essere il loro ultimo viaggio, stavolta verso casa. 

 

 

Le case, appunto, e la terra, sono il cuore del futuro della Siria. Le milizie guidate dagli islamisti di Hayat Tahrir al Sham (Hts) lo sanno bene. Per questo il primo discorso del loro comandante Ahmed al Sharaa – la versione “gentile” di Abu Muhammad al Julani – è stato rivolto per promettere che le proprietà di tutti sono inviolabili. Perché tutti, senza distinzione di etnia o di religione, hanno sperimentato lo sradicamento dalla propria terra – spesso si è parlato di esperimenti sociali, di rimescolamenti etnici programmati a tavolino dal regime per evitare che i dissidenti stessero tutti insieme, si parlassero per coordinarsi contro Damasco – e tutti hanno avuto i propri “martiri”, come li chiamano da una parte e dall’altra del conflitto. 

 

Che le case e la terra fossero il cuore del problema siriano se ne erano accorti anche al di fuori del paese. Quando l’Europa, trascinata da alcune cancellerie come quella italiana, ha spinto per una normalizzazione delle relazioni con il regime, al centro c’era sempre la promessa del ritorno dei rifugiati nelle proprie terre. Oggi che si è avuta la dimostrazione che dialogare con Assad era una mossa cieca, non resta che gettare le basi per parlare con chi verrà dopo di lui. Hts si è presentato con toni moderati, votati al rispetto delle minoranze e all’inclusività, all’insegna del “siamo tutti siriani”. Finora, le testimonianze dei residenti delle zone liberate confermano che la situazione è tranquilla e i cristiani attendono un Natale votato alla preghiera, sperando che le promesse di Sharaa siano mantenute. 

 

Hts ha imparato la lezione dei talebani in Afghanistan: presentarsi come un’entità ripulita, cauta, con cui dialogare. Hts ha già messo il cappello su questa fase di transizione – il nuovo primo ministro ad interim sarà quello del governo di salvezza di Idlib, Mohammed al Bashir, uomo di Sharaa – e adesso è con loro che devono interfacciarsi l’occidente e il mondo arabo. Non che manchino i presupposti. Dal 2017, sulla testa di Sharaa, ex leader di Stato islamico e al Qaida, l’Fbi ha messo una taglia da 10 milioni di dollari. Lui però non solo è rimasto in vita per tutti questi anni, ma gli è stato consentito di edificare uno stato nello stato a Idlib, di addestrare delle Forze armate che gli hanno permesso oggi di unificare la Siria e di cacciare un regime lungo oltre mezzo secolo. Gli americani sono presenti nel paese con una forza militare di circa un migliaio di uomini per combattere lo Stato islamico e secondo molti esperti, se Washington avesse voluto, avrebbe potuto uccidere Sharaa in qualsiasi momento. Non l’ha fatto, perché Hts non è considerato un gruppo islamista come gli altri, ma uno con due punti di forza: è in guerra con lo Stato islamico e da anni accetta volentieri di  discutere di politica e sicurezza. I servizi segreti turchi, quelli emiratini e quelli americani hanno già  avuto a che fare con Hts, hanno già collaborato con alcuni dei suoi leader, soprattutto nell’ambito della guerra al Califfato. Le stesse Nazioni Unite hanno aperto un ufficio a Idlib per sovrintendere alla gestione degli aiuti umanitari che transitano dalla frontiera turca. Sharaa, insomma, non è uno sconosciuto per l’occidente, tanto meno per i russi. Gli altri grandi sconfitti dalla caduta di Assad hanno già aperto i canali diplomatici con Hts per trattare sul futuro delle loro basi nel paese. “Non siamo in guerra con nessun popolo, nemmeno con quello russo. Solo con il regime di Assad”, aveva detto Hts. E da ieri a Mosca, all’ambasciata siriana, sventola la bandiera della rivoluzione verde bianca e nera. “Per noi non è un problema”, sembra abbia commentato Sharaa.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.