l'arbitro necessario
Gli americani difendono Kobane e combattono l'Isis. Senza di loro non c'è futuro per la Siria
Sdf e milizie filoturche trovano l'accordo per un cessate il fuoco grazie alla mediazione degli Stati Uniti, che hanno due urgenze: evitare scontro settari e continuare a combattere lo Stato islamico
“Sarebbe un peccato sprecare un’occasione storica in cui un tiranno viene cacciato solo per vederne uno nuovo arrivare”, ha detto Joe Biden che valuta, così come altri paesi, l’ipotesi di riconoscere il governo transitorio a Damasco, ma solo a certe condizioni: la principale è che le minoranze etniche e religiose siano tutelate. La Siria del dopo Assad spaventa per il rischio di scontri settari, che farebbero del paese una terra di nessuno a beneficio dello Stato islamico. Lo scenario che gli americani vogliono scongiurare è di avere un governo islamista a Damasco e terroristi dell’Isis in libertà.
Mentre la Casa Bianca diffondeva il comunicato, il comandante delle Forze armate degli Stati Uniti nel medio oriente, Michael “Erik” Kurilla, ha visitato in gran segreto le basi americane in Siria e ha mediato un cessate il fuoco nel nord del paese per porre fine agli scontri fra i curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf) alleate di Washington e i filoturchi dell’Esercito nazionale siriano (Sna). L’Sna è una specie di costola delle Forze armate turche e agisce per realizzare il grande obiettivo di Recep Tayyip Erdogan: allargare la zona cuscinetto nel nord della Siria per schiacciare i curdi, che considera terroristi affiliati al Partito curdo del lavoratori (Pkk). In base agli accordi raggiunti martedì, l’Sna ha preso il controllo di Manbij a ovest dell’Eufrate, lasciando ai curdi Kobane, a est del fiume. L’intervento di Kurilla per ristabilire l’ordine dimostra che il futuro del paese non potrà prescindere dalla presenza delle truppe americane.
Il banco di prova delle promesse fatte dagli islamisti di Hayat Tahrir al Sham (Hts) per una tenuta unitaria della Siria sta a centinaia di chilometri di distanza da Damasco, ai confini con Turchia e Iraq. E’ in questi angoli del paese che lo Stato islamico si è reso più attivo nell’ultimo anno, dando prova che se è vero che il Califfato è morto, le sue cellule invece sono ancora attive. I jihadisti potrebbero rafforzarsi ulteriormente da questa fase di transizione e di scontri settari ed è ciò che sia Washington sia l’Europa temono di più. L’8 dicembre, il Comando americano ha lanciato uno dei raid aerei più grandi di sempre in Siria, con oltre 70 obiettivi dell’Isis colpiti. Bombardare dall’alto però non basta e la priorità è fare sì che i curdi tornino a concentrarsi sulla guerra allo Stato islamico, senza farsi “distrarre” dai turchi, come successo a Manbij e Kobane in questi giorni. “Soprattutto Kobane va difesa perché ha un grande valore simbolico, è stata la prima città della Siria a sconfiggere lo Stato islamico tra il 2014 e il 2015 proprio con l’aiuto degli americani”, spiega al Foglio Wladimir van Wilgenburg, studioso ed esperto del Kurdistan siriano.
I combattenti dell’Sdf sono anche i “carcerieri” dei jihadisti catturati in questi anni e rinchiusi in enormi campi di prigionia nel nord-est della Siria. Da anni, Washington è preoccupata dalla tenuta della sicurezza in queste zone di detenzione a cielo aperto, accusate di essere parte del problema, piuttosto che la cura della radicalizzazione. Sia i foreign fighter sia le loro famiglie – donne e figli dei combattenti sono reclusi in zone separate – hanno coltivato un odio ancora più profondo nei confronti dei propri aguzzini e dell’occidente. Due anni fa, nel campo di Hasakah, oltre 500 persone sono state uccise durante un enorme tentativo di fuga di massa, che aveva portato a combattimenti con i curdi durati dieci di giorni. Scenari come questo sono il peggiore incubo per la Siria, ma anche per i paesi occidentali, timorosi che i foreign fighter dell’Isis tornino in libertà e rientrino in America e in Europa.
Sebbene l’Sdf abbia tenuto il controllo di Kobane a nord, ha invece dovuto ritirarsi da Deir Ezzor, nell’est della Siria. Le tribù arabe non vogliono essere governate dai curdi e martedì li hanno cacciati, permettendo ai ribelli sunniti di Hts di prendere il possesso di questo snodo cruciale che si affaccia sulla frontiera irachena fino ad al Bukamal.
Impegnati nella formazione del governo a Damasco, i curdi hanno proposto ai ribelli di Hts due possibilità: o la creazione di una regione autonoma a nord – un’ipotesi ampiamente osteggiata dalla Turchia – oppure di essere integrati nel nuovo governo, spiega van Wilgenburg. Nonostante il cessate il fuoco la situazione resta incerta ma Sdf nutre grandi speranze nelle promesse fatte dai ribelli che hanno sopraffatto il regime di Bashar el Assad. “I curdi hanno detto che stanno dialogando con Hts e che non hanno alcun problema con loro, che sono pronti ad accettarli al potere. Finora il loro unico nemico sono stati i filoturchi”, dice l’esperto. Quel che è certo è che senza la mediazione degli americani la situazione sarebbe stata intenibile e i turchi avrebbero già preso il controllo di Kobane, che Washington considera una “linea rossa” invalicabile. Il dubbio che resta è cosa accadrà a gennaio, quando Donald Trump dovrà decidere della sorte delle truppe americane in Siria. Nel 2019, tagliò della metà il contingente americano nel paese e la settimana scorsa ha ripetuto che “la Siria non è la nostra guerra”. Erdogan resta alla finestra.
Isteria migratoria