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Sforzo culturale

Denunciare la minaccia di Putin per l'occidente non è militarismo, è imparare a difendersi

Vittorio Emanuele Parsi

La mentalità di guerra che evoca Rutte serve a costruire la pace attraverso una crescita dell’impegno per la difesa comune. Prepararsi all'ipotesi peggiore, in modo da poterla scongiurare in tempo

“Il pericolo viene verso di noi velocemente, quello che è successo in Ucraina può accadere qui: possiamo prevenire una guerra sul territorio della Nato ma dobbiamo passare a una mentalità di guerra”. Queste le parole del segretario generale della Nato, durante un discorso al Carnegie Endowment a Bruxelles. Ma che cosa significa “passare a una mentalità di guerra”? Forse diventare dei guerrafondai, avvicinare la probabilità di una Terza guerra mondiale (“a pezzi” o meno, poco importa), come hanno subito voluto interpretare i cori degli irresponsabili travestiti da pacifisti in servizio permanente effettivo?


Evidentemente, no. Parlare di un pericolo, denunciare i rischi di una minaccia non ne avvicina la realizzazione, semmai è vero il contrario: descrivere l’occidente in preda a una sindrome bellicista e nelle mani dei mercanti d’armi è una fola e una menzogna. Basterebbe guardare le immagini della “Putinjugend” che si addestra nelle scuole dell’impero sgarrupato e cialtrone del despota del Cremlino, o leggersi i dati pubblicati dal Sipri, che attesta come nessun fabbricante d’armi occidentale abbia conosciuto un incremento di ricavi e profitti paragonabile a quello delle aziende russe. E d’altronde quella russa è davvero un’economia di guerra in cui la spesa militare è responsabile di una quota abnorme del pil e della sua crescita dopata, oltretutto in presenza di un’inflazione a doppia cifra.

 

            


Il discorso di Rutte, che si concludeva con l’ammonimento a una crescita dell’impegno per la difesa comune quantificabile anche in percentuali del pil, andava ben oltre il tema del 2 per cento necessario oggi e del 3 per cento che servirà probabilmente domani (mentre l’Italia non arriva all’1,50 per cento). Il segretario dell’Alleanza atlantica alludeva piuttosto a una questione “un tantino” più epocale. I lunghi decenni di assenza di una minaccia esistenziale ai nostri confini (diciamo dal 1989 al 2014) hanno rafforzato il pregiudizio che la sicurezza sia un pasto gratis, che, per gli europei, dipende esclusivamente dall’attitudine altrui – la buona volontà degli Stati Uniti a fornirla, la scelta russa di non minacciarla, i vincoli dell’economia cinese – e non anche dalla nostra capacità a leggere il mutamento della situazione e ad attrezzarci per non esserne schiacciati. Attrezzarsi a questa realtà è una necessità improcrastinabile, che richiede investimenti massicci, necessari per trasformare forze armate che negli ultimi trent’anni erano state concepite per operazioni di peace-keeping o al massimo peace-enforcing di fronte a insorgenti e forze militari irregolari (oltretutto con scarso successo) in uno strumento capace di esercitare deterrenza nei confronti di eserciti pesanti e tecnologicamente avanzati. Prepararsi all’ipotesi peggiore, per poterla scongiurare è il senso delle parole del capo di stato maggiore dell’Esercito in un’intervista rilasciata a Repubblica qualche settimana fa. Questo è il motivo perché occorre investire ora così tante risorse. 


Oggi, aumentare le spese per la difesa significa reagire alla constatazione che, alle nostre porte, un attore molto ben identificabile ha dimostrato di non aver alcuno scrupolo nel minacciare e impiegare la forza per raggiungere i propri obiettivi imperialisti. Elevare le nostre capacità di difesa significa aumentare la credibilità della nostra autonoma deterrenza e la statura e incidenza della nostra postura politica. Non significa in alcun modo seguire Putin nella sua logica di sopraffazione, ma semmai impedire che questa logica si imponga, oggi in Ucraina, domani nel resto d’Europa. E’ perché crediamo fermamente in un mondo regolato dalla legge e dalle istituzioni internazionali, in un mondo che continui a essere “sicuro per le democrazie”, che ci impegniamo a rendere chiaro che i despoti non prevarranno, che i tiranni “no pasaran!”.


Come ha ricordato il ministro della Difesa Guido Crosetto alla cerimonia di consegna del “Trieste” alla Marina militare, sabato scorso, occorre prendere atto che il mondo non sta andando nella direzione da noi auspicata e nella quale continuiamo a credere e comportarci responsabilmente di conseguenza. Solo se mostreremo fermezza, preparazione e capacità adeguate potremo evitare la sconfitta del nostro presente e del futuro dei nostri figli e delle nostre figlie. L’alternativa all’adeguamento delle nostre capacità militari non è la pace universale, ma la resa codarda di fronte alla più vile e continuata delle aggressioni.


Quello che occorre, allora, è un vero e proprio salto di mentalità, che ricordi a tutti che la pace non si costruisce con le buone intenzioni ma invece sgombrando il campo dagli equivoci che spesso affollano la mente dei bulli, dei violenti e degli intolleranti: ovvero l’illusione mortifera che la prepotenza conferisca loro diritti speciali a danno dei pacifici, dei non violenti e dei tolleranti. Il che non significa rifiutarsi al dialogo, ma semplicemente non venir meno ai propri princìpi e ai propri ideali. Se vogliamo continuare a sperare e a operare concretamente affinché, dopo questa terribile e buia notte della ragione, la luce torni a illuminare il nostro cammino, occorre innanzitutto resistere ora, mostrarsi pacifici ma non imbelli. E’ uno sforzo culturale che non ha nulla a che vedere con il militarismo da operetta e con le marcette littorie, ma che è fatto della severa assunzione di responsabilità e di scelte coerenti e tempestive, capaci di sfuggire alla paura dell’impopolarità e alle semplificazioni alimentate da troppi pifferai (per non parlare dei pifferi) che si illudono di guidare da remoto questo o quel movimento populista, compresi quelli che si credono novelli Scalfari, essendo in realtà dei Pecorelli 2.0. 
 

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