Il piano dell'Iran per sfasciare la Giordania

Micol Flammini

Teheran non è mai stato così debole ma non ha abbandonato i suoi obiettivi. Fuori dalla Siria, rotto in Libano, allontanato da Gaza, il regime e i suoi alleati  lavorano per destabilizzare Amman. Segnali

Non era mai accaduto che la Repubblica islamica dell’Iran, dalla sua creazione, fosse tanto debole. In un anno sono crollati i progetti che il regime aveva costruito in  quarant’anni, ma gli obiettivi sono rimasti tutti in piedi. Nel giro di qualche mese il sedicente Asse della resistenza – l’insieme di forze messe insieme da Teheran per far guerra a Israele – ha perso tre dei suoi fronti – Hamas, la Siria e il suo prezioso Libano – ma l’Iran, che dell’Asse è il perno, non  ha abbandonato i suoi obiettivi. Tutto può essere ancora ricostruito, il regime iraniano non demorde e secondo un’esclusiva del Wall Street Journal la prossima Amministrazione americana guidata da Donald Trump sarebbe partita proprio da questa consapevolezza nel valutare varie opzioni per impedire all’Iran di costruire un’arma nucleare. Il regime è determinato, le sanzioni economiche potrebbero non bastare a fermarlo, la diplomazia ha i suoi limiti e gli Stati Uniti, secondo il quotidiano americano a cui non mancano ottime fonti, potrebbero prendere in considerazione  l’idea di realizzare attacchi preventivi contro siti nucleari. La strategia è di “massima pressione”, dicono da  Washington, ma ancora non c’è una linea sul come realizzarla, se aumentando la presenza americana in medio oriente, dotando Israele di bombe anti bunker più potenti o agendo direttamente. La diplomazia  non basta, soprattutto ora che Iran ha abbastanza uranio altamente arricchito per costruire “quattro bombe nucleari (...) basterebbero pochi giorni per convertire quella scorta in combustibile nucleare di grado bellico”, scrive il Wall Street Journal. Hamas è stato sconfitto nella Striscia di Gaza, Hezbollah in Libano, la Siria non può essere più il passaggio sicuro per rifornire gli alleati, ma da tempo l’Iran coltiva e fomenta le tensioni in Giordania, un paese in cui circa un quinto della popolazione è palestinese, i cittadini registrati come rifugiati sono duemilioni e trecentomila.  I segnali di una possibile destabilizzazione si vedono con chiarezza dal 7 ottobre. 


 L’attacco di Hamas contro i kibbutz israeliani e la reazione di Tsahal contro la Striscia di Gaza hanno portato a proteste partecipate e rumorose in Giordania che sono andate avanti per diverso tempo. La Giordania è un regno sunnita, ma dopo la morte del capo di Hezbollah,  Hassan Nasrallah, la capitale Amman è stata percorsa da manifestazioni  piene  di cordoglio con foto del leader del gruppo sciita e cortei  che intonavano “Siamo qui, o Nasrallah”, un canto che è rimbalzato per le città sciite difficile da udire in quelle sunnite. Dopo l’eliminazione del capo di Hamas, Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran mentre era ospite in un palazzo gestito dai pasdaran, ad Amman è stato celebrato un finto funerale. La rabbia, la crisi economica, la posizione geografica fanno della Giordania il candidato perfetto per i piani dell’Iran determinato a ricostruire la sua rete. “Cercheranno di stabilire in Giordania quello che avevano fatto in Libano”, dice il generale israeliano Nitzan Nuriel. “Hanno i mezzi per farlo, hanno la motivazione e hanno il controllo del confine tra l’Iraq e la Giordania”. Non è facile per una potenza sciita accreditarsi presso una popolazione sunnita, ma Teheran c’è già riuscita in altre situazioni, la collaborazione con  l’ex leader di Hamas eliminato in ottobre, Yahya Sinwar,  lo dimostra e il regime iraniano continua a presentarsi ai palestinesi come il paladino della loro causa. Le manifestazioni in Giordania contro la guerra a Gaza finora non hanno mostrato cenni di sostegno aperto a Teheran, ma hanno portato il partito islamista Fronte d’azione islamica a vincere le elezioni di settembre sfruttando la rabbia contro il re Abdallah II, fedele alleato degli Stati Uniti. 


Il generale Nuriel pone molta attenzione sulla questione dei confini: è stato attraverso il confine tra Siria e Libano che l’Iran ha potuto alimentare l’arsenale di Hezbollah, adesso che la Siria non è più percorribile, per il momento, Teheran cerca strade alternative e parte da quello che ha già: le reti di contrabbando che usano il territorio giordano per portare armi in Cisgiordania e soprattutto il controllo del passaggio tra l’Iraq e la Giordania in cui le milizie sciite di Kataib Hezbollah hanno minacciato di essere pronte ad armare dodicimila giordani per attaccare Israele. Ahmad Sharawi del think tank Foundation for Defence of Democracies ha notato che un tempo i giordani rifiutavano ogni ingerenza da parte dell’Iran e avrebbero reagito alle minacce di Kataib Hezbollah, ma ormai le intenzioni iraniane non suscitano né rabbia né stizza. 
La destabilizzazione della Giordania è un progetto che potrebbe essere semplice da realizzare per l’Iran. Il suo successo sarebbe un disastro per il regno e per Israele. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)