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Quel filo rosso che unisce Roma e Tirana

Nicola Mirenzi

L’acqua blu, dipinta di blu, è un elemento essenziale nel destino dei due paesi. Oggi sbandierata sorella d’Italia, l’Albania è stata prima conquistata poi dimenticata. Il fascismo, i migranti, le contraddizioni della sinistra

Doveva essere una “nuova Guantanamo, una “deportazione di massa”, “roba da ventennio” – o, al contrario, “un accordo storico”, un “modello per l’intera Unione Europea” – ma, a più di un anno dalla firma, il patto sui migranti Italia-Albania non è né un orrore né un miracolo – è un punto interrogativo. Nei due centri costruiti a Shëngjin e Gjadër, nel nord del paese, ci sono solo cani randagi, raccolti dagli agenti italiani rimasti in servizio, quando non se ne vanno in giro a fare i turisti, “perché qui non abbiamo niente da fare”, hanno detto alle telecamere nascoste della trasmissione albanese “Piranjat”. Il patto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama è di fatto sospeso, nell’attesa che i giudici della Corte europea decidano se hanno ragione i magistrati italiani a dire che l’accordo firmato a Roma il 6 novembre del 2023 è in contrasto con il diritto comunitario, oppure no. In questo limbo, l’Albania è tornata sorella d’Italia. Ogni giorno si pronuncia il suo nome. La sinistra felice del “fallimento” del progetto “neocoloniale” della maggioranza. La destra, invece, convinta che si compirà. “Io non prendo impegni che non ritengo di poter mantenere”, ha detto Giorgia Meloni. “Farò tutto quello che devo fare per farlo funzionare”.

 

Raccontava Domenico Modugno che da ragazzo era dotato di una grande resistenza in acqua. “Mi buttavo nel mare e continuavo a nuotare fino a quando, a un certo punto, non vedevo più la costa pugliese; e allora continuavo ancora, fino a quando non vedevo la costa dell’Albania”. L’acqua blu, dipinta di blu, è un elemento essenziale nel destino dei due paesi. “La striscia di mare che separa l’Italia e l’Albania serve egregiamente non a slontanarle, ma a unirle”, scrive Indro Montanelli in un libro molto raro, Albania una e mille, frutto di un viaggio durato oltre tre mesi, tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, alla vigilia dell’occupazione fascista. “E’ la geografia che si incarica di designare ad ogni popolo i suoi amici e i suoi nemici. Ora la geografia adriatica è tale che fatalmente Italia e Albania debbono basare i loro rapporti sopra un piano di interessi comuni”. 

 

“La striscia di mare che separa l’Italia e l’Albania serve egregiamente non a slontanarle, ma a unirle”, scriveva Indro Montanelli

 

Da allora, è ricorrente l’idea che l’Albania assomigli a un pezzo d’Italia fuori sede, più che a uno stato straniero. Lo pensa il primo ministro socialista Edi Rama, quando dichiara che “l’Albania si sente parte dell’Italia”. Ne è convinto l’architetto Stefano Boeri, chiamato a progettare il nuovo piano regolatore di Tirana, firmato nel 2017. “L’Albania è un pezzo d’Italia oltre l’Adriatico”, ha detto Boeri. Ma era quello che pensava anche Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri del regime, genero di Benito Mussolini, infaticabile motore dell’annessione fascista: “Noi consideriamo l’Albania come qualsiasi altra regione d’Italia”. Nel corso della conferenza stampa seguita alla firma dell’accordo con Edi Rama, a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni disse che l’Albania, pur non essendo ufficialmente un paese membro dell’Unione europea, si comporta nei fatti come tale. Per questo “sono fiera che l’Italia sia da sempre uno dei paesi sostenitori dell’allargamento ai Balcani occidentali”. Secondo Meloni, sarebbe preferibile parlare di “riunificazione” dei Balcani occidentali all’Europa, anziché di nuovi ingressi nell’Ue, poiché essi sono già “paesi europei a tutti gli effetti”. “Ma riunificazione”, ha obiettato sul Financial Times Lea Ypi, docente di filosofia politica alla London School of Economics, “è un termine legale”. Presuppone “la ricostituzione di un organismo sovrano precedentemente spezzato”, come fu per la riunificazione tedesca, dopo il 1989. 

 

Autrice di Libera – memoir nel quale racconta la sua infanzia nell’Albania comunista, poi gli anni di liberismo e caos seguiti alla caduta del comunismo, infine l’arrivo a Roma per studiare alla Sapienza – Ypi ricorda che “tecnicamente, l’unica volta nella storia in cui lo stato albanese e quello italiano appartennero alla stessa giurisdizione è stata dal 1939 al 1943, quando Vittorio Emanuele III fu ufficialmente ‘Re d’Italia e Albania’, dopo l’invasione di Mussolini”. Fu in quel periodo che cambiò anche la bandiera albanese e, ai lati dell’aquila bifronte, vennero eretti due marziali e solenni fasci littori. Ed ecco dunque cosa si celerebbe – secondo Ypi – dietro il patto Italia-Albania: una nuova ambizione di conquista, un nuovo desiderio di dominio. Ma, prima di stabilire se ha ragione o torto, chi se lo ricorda più quel passato? 

 

“L’Albania è un pezzo d’Italia oltre l’Adriatico”, ha detto Stefano Boeri. “La consideriamo come qualsiasi altra regione d’Italia”, diceva Ciano

 

“L’Albania diventerà italiana”, annunciò il Duce al Gran consiglio del fascismo, il 30 novembre del 1938. “Non posso né voglio ancora dirvi quando e come. Ma lo sarà”. Cinque mesi dopo, il 6 aprile 1939, l’ordine di attacco. “Alle 7.45 siamo su Durazzo”, annota Galeazzo Ciano nel suo diario. “Lo spettacolo è bellissimo. Nella rada, ferme e solenni, sono le navi da guerra, mentre i motoscafi, le maone, i rimorchiatori solcano il porto trasportando le forze da sbarco”. Poi, il ministro degli Esteri arriva a Tirana, dopo aver sorvolato la colonna di autocarri che marcia verso la capitale, e scrive: “Non nascondo che una violenta emozione si è impadronita di me e di tutti”. 

 

Ciano aveva preparato questo momento a lungo, costruendo abilmente un piano per mettere fuori gioco il Re albanese, Zogu, di cui era stato anche testimone di nozze, e che – crudeltà della storia – il giorno prima dell’invasione aveva avuto il suo primo e unico figlio dalla moglie. “Francamente non mi immagino Geraldina, con pancetta di nove mesi, peregrinare combattendo per le montagne del Mathi o della Mirdizia”. Anche lo sfruttamento di questo momento fu una leva del piano di Ciano. Per realizzarlo, aveva convinto Mussolini; atteso che la situazione internazionale fosse favorevole all’azione; pazientato nei momenti in cui al Duce sembrava inutile compiere questa mossa. Poi, il 12 aprile, stringe la mano ai membri del nuovo governo a Tirana. “La folla mi accoglie trionfalmente”, si compiace. Anche se nota che i più giovani “stentano ad alzare il braccio nel saluto romano, e qualcuno anche si rifiuta apertamente di farlo quando i suoi compagni lo invitano”. Il suo antidoto è procedere spediti con i lavori pubblici. “Solo così legheremo definitivamente a noi il popolo e svuoteremo l’autorità dei Capi”. Sono stanziati 430 milioni di lire. “Una cifra che può permettere di svolgere un’azione su larga scala”. Il Duce addirittura dà un contributo personale: un milione per la costruzione di alberghi nei maggiori centri. E Hitler? “E’ entusiasta del programma di fare dell’Albania una roccaforte che domini inesorabilmente i Balcani”. “Non vi è dubbio che se potremo lavorare in pace – pensa Ciano – entro alcuni anni saremo in possesso della più ricca regione d’Italia”.

 

La guerra però arriva, e sconquassa tutti i piani. L’idea italiana di usare l’Albania per chiudere il mare adriatico e trasformarlo in un mare nostrum fallisce dopo l’attacco alla Grecia. Le truppe italiane sono respinte. Pagine drammatiche si susseguono nel diario di Ciano mentre il suo disegno si frantuma. Finché Mussolini non lo allontana dal governo, dopo sette anni al ministero degli Esteri, proponendogli di fare il luogotenente in Albania. Incarico che Ciano rifiuta con sdegno. “Andrei a fare il fucilatore e l’impiccatore di coloro cui promisi fratellanza e parità di diritti”. 

 

Finisce così l’avventura albanese dell’Italia, ma, diversamente da quella in Etiopia, assai più raramente è stata posta sotto la lente autocritica degli italiani. Colpisce che le pagine dedicate da Montanelli alla sua esperienza in Etiopia periodicamente riemergano nella discussione pubblica come simbolo del nostro passato coloniale; in particolare, quelle in cui ricorda il suo rapporto con Destà, una quattordicenne comprata a 350 lire, con un contratto “non di matrimonio, ma una specie di leasing”. Mentre quelle che lo stesso Montanelli dedica all’Albania non sono state mai più pubblicate dal 1939. Certo, il reportage di Montanelli precede l’occupazione fascista. “Non avevo preveduto e non potevo prevedere che ciò accadesse improvvisamente”, scrive. Ma documenta un atteggiamento nei confronti degli albanesi, soprattutto quelli che vivono fuori dalle città, ambivalente. Da una parte ne è affascinato: “Finché resti con loro, tutti i criteri di giudizio morale a cui il tuo cervello sinora si era tenuto ancorato, ti si capovolgono, metti in dubbio il progresso, la civiltà, le leggi”. Dall’altra parte, li considera fuori dalla storia. Scrive a un certo punto, di fronte alla fiera dignità dei malissori, i montanari del nord. “Ti vergogni di essere un uomo civile”. Ma erano poi tanto diversi dai montanari dell’Aspromonte? C’era davvero differenza tra i pastori albanesi e quelli sardi, o tra i contadini di Scutari e quelli friulani? La similitudine non scatta mai, nelle pagine montanelliane. Quasi che per statuto la civiltà appartenesse agli italiani, indistintamente. Mentre agli albanesi andava tendenzialmente elargita. Ma era veramente così? E cos’è rimasto di tutto ciò nel rapporto successivo tra gli italiani e gli albanesi? 

 

L’Italia ha discusso raramente questo argomento dopo l’avventura coloniale. Per lunghi anni, nel dopoguerra, l’Albania è semplicemente scomparsa dalla mente italiana. Per il regime di Enver Hoxha – lo racconta Giovanni Verga nel suo libro sul dittatore, L’uomo che non doveva mai morire –  l’Italia divenne una doppia nemica: colpevole sia del proprio passato fascista, e sia di avere il più grande partito comunista d’occidente, totalmente venduto al revisionismo. Deviazione che Radio Tirana non mancava mai di far notare nelle trasmissioni in lingua italiana che mandava in onda nel nostro paese. Mentre, tra una scomunica e l’altra, “trasmetteva musica balcanica”, come cantava Franco Battiato in Voglio vederti danzare.

 

Per il regime di Enver Hoxha l’Italia era colpevole anche di avere il più grande partito comunista d’occidente, venduto al revisionismo

 

Poi, alla fine del 1990, il regime crolla e l’Italia diventa improvvisamente Lamerica. Così Gianni Amelio titolò il film che racconta come la nostra diventò la terra promessa degli albanesi. L’immagine più potente è senz’altro quella del mercantile Vlora. Arrivò a Bari l’8 agosto del 1991. Avanzando lentamente, come alla moviola, perché a bordo aveva stipate 21 mila persone. “Assomiglia a un gigantesco grappolo d’uva che si muove sul mare”, scrive Enrico Deaglio nel suo annale, Patria. “Quando arriva in porto, in una giornata che si preannuncia caldissima, non si riescono a trovare le parole adatte a descrivere le immagini”. 

 

Nonostante la Lega Nord proponga di ricacciarli subito in mare, una straordinaria mobilitazione della città di Bari accoglie i profughi. Così come era già successo a Brindisi, dove si fecero in quattro per dargli alloggi e protezioni. In quel momento, gli albanesi erano ancora poveri cristi. Non si erano trasformati in primitivi, violenti, criminali per natura, gente con codici d’onore selvaggi, che sfrutta le donne e ruba. Questo era diventato il clima sei anni dopo. Quando gli albanesi fanno ormai solo paura e il governo dell’Ulivo, guidato da Romano Prodi, fa quello che Giorgia Meloni è solo riuscita a promettere per anni e anni in campagna elettorale: il blocco navale.

 

Il governo dell’Ulivo, guidato da Prodi, fa quello che Meloni è solo riuscita a promettere per anni in campagna elettorale: il blocco navale

 

Sono le 18.57 del 28 marzo 1997, un Venerdì santo, quando una piccola motovedetta albanese stracarica di immigrati, la Katër i Radës, viene speronata da una corvetta della Marina militare italiana, la Sibilla. Ne Il naufragio, memorabile libro inchiesta sulla tragedia, Alessandro Leogrande paragona la stazza delle due navi. “La Sibilla è quattro volte più lunga della Katër, tre volte più larga. Ma quello che impressiona è il peso totale delle due imbarcazioni: 56 tonnellate la Katër; 1.285 la Sibilla. Il rapporto è più o meno di 1 a 23”. Anche per questo, quando le due navi collidono, la motovedetta albanese affonda in pochi minuti. Annegano 81 persone, in 34 si salvano. “E’ il punto più basso della storia dell’Ulivo”, scrive Goffredo Fofi. Mentre sulla costa di Brindisi arriva Nanni Moretti. La visita diventa un scena del film Aprile in cui dice: “Il fatto che non sia venuto nemmeno un dirigente della sinistra è il sintomo non solo della loro assenza politica, ma umana”. Il 30 marzo un politico arriverà, invece. E’ Silvio Berlusconi, il capo dell’opposizione. Giunge a bordo di un elicottero dalla Sardegna, dove stava trascorrendo le vacanze pasquali. Incontra i sopravvissuti. Quando esce di lì dichiara, tra le lacrime: “Vorrei che tutti gli italiani avessero avuto l’incontro che adesso ho avuto io con questa gente che ha perso tre figli, ha perso la moglie, che sperava di venir qui a trovare un paese libero, democratico, in cui poter lavorare, in cui potersi affermare. Sono cose indegne di noi. Non possiamo permettere che succedano più nel nostro paese. Vi chiedo scusa”. 

 

Oggi Meloni punta a delocalizzare i nuovi migranti e l’opposizione ha alzato le barricate. Ma destra e sinistra condividono più di quel che sono disposte ad ammettere sull’Albania. Nel 2008, per esempio, Giulio Tremonti propose di rilanciare il nucleare italiano costruendo centrali “oltre Adriatico”. Fu d’accordo Enrico Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Da ministro della giustizia di sinistra, Piero Fassino invece iniziò a costruire un carcere a Pequin, non lontano da Tirana, per spedirci i detenuti albanesi in Italia. Lo concluse il ministro della Lega Castelli. Ma anche i 5 stelle, quando erano ancora oltre la destra e la sinistra, volevano costruire in Albania degli hotspot per la prima accoglienza dei migranti. Oggi ci pensa il governo Meloni a realizzare qualcosa di simile. Nel presupposto, condiviso, che l’Albania è una sorella d’Italia, sì. Ma, sotto sotto, ancora troppo piccola. Da far crescere. Una sorella minore.

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