L'editoriale dell'elefantino
La resa non è a testa bassa
Zelensky non uscirà dalla guerra umiliato e la prova della resistenza a un gigante bellico l’ha vinta ma la tenaglia su Kyiv crea un precedente pericoloso: quali garanzie offrire a chi un domani sarà minacciato? Un Churchill non c’è
Non sarà mai una resa incondizionata, il negoziato a cui si appresta il capo della resistenza e della nazione ucraina, e con lui quel che resta della coalizione euroccidentale, se e quando il capo del Cremlino accetterà di dargli inizio, dovrà necessariamente stabilire un qualche equilibrio della sicurezza in Europa e nel mondo, dopo la sua flagrante violazione iniziatasi con l’invasione del febbraio 2022, quasi tre anni fa. Ma quando Zelensky dice che non ha la forza per riprendersi il territorio occupato da Putin, un quinto abbondante del suo paese, la dichiarazione di resa è nelle cose. Nella sua conferenza stampa Putin ha scelto un registro dandystico, “quando le cose sono ferme ci si annoia”, ha cantato una sorridente romanza di vittoria ben dissimulata nel realismo (pronti al compromesso), nel persistere delle minacce (continuiamo ad avanzare, se volete sperimentare la possibilità di abbattere il missile Oreshnik su Kyiv siamo pronti all’esperimento), nelle condizioni poste all’avvio del negoziato, escludendo per ora il cessate il fuoco (aspetto di sentire Trump, aspetto le elezioni presidenziali in Ucraina), nella sfumatura divisiva e velenosa introdotta fra europei e sottolineata dall’espressione di simpatia per l’Italia (che contraccambia, a suo dire) nella svalutazione dei rischi e delle sconfitte del potere espansivo sovietico su altri quadranti come il medio oriente e la Siria, nella riduzione a piccoli problemi di tendenze fieramente negative come l’inflazione e la pietrificazione dell’economia russa.
Il ministro degli Esteri dell’Unione europea, Kaja Kallas, che viene dall’Estonia e sa quel che dice, ha castigato con un discorso coraggioso le pressioni per il negoziato che hanno associato parte delle classi dirigenti europee alla minaccia ombra, che fra tre settimane uscirà alla luce del sole, costituita dall’ipotesi di sospensione del sostegno trumpiano a Zelensky. Se siete seri, ha detto, dovete garantire un sostegno vero alla resistenza degli ucraini e, nella prospettiva incerta di un negoziato reso difficile dalla riluttanza e baldanza dei russi, dovete specificare bene quali garanzie di sicurezza ci sono per Kyiv, e anche l’olandese segretario generale della Nato ha avuto parole pesanti e severe in materia. Ma se il punto di partenza per un compromesso, parola accarezzata con toni ironici dal vincitore della guerra, perché quando c’è una dichiarazione di resa dall’altra parte c’è una vittoria, dichiarata o no, è un deal trumpiano al quale gli europei sacrificano, al di là delle parole, al di là dei sostegni proclamati, la loro “autonomia strategica”, allora l’aver infranto l’unità territoriale di Kyiv con un’azione di guerra nel teatro europeo si rivelerà una scommessa vinta dalla Russia e molto costosa per chi la subisce e la perde, europei e americani. Sarà in quel caso ben difficile offrire all’Ucraina garanzie dell’Unione e della Nato che risultino un contrappeso sufficiente al colpo portato da Putin, con un milione di morti della sua parte e valicando molte linee rosse che ha invece imposto al nemico di rispettare.
Zelensky è sconfitto ma non umiliato. La prova della resistenza a un gigante bellico l’ha vinta. E in tanto parlare di realismo, l’unico vero è il suo. Diverso è il discorso per l’Europa del treno per Kyiv, quella della foto storica di francesi tedeschi e italiani che cercavano di riscattare il fallimento dell’appeasement con il neoimperialismo russo condividendo con britannici (Johnson) e americani (Biden) le responsabilità della difesa del paese aggredito. Churchill nella fase finale della Seconda guerra mondiale fu emarginato dalla preponderanza militare e strategica di Roosevelt e Stalin, che erano i veri vincitori per capacità bellica e sacrificio della resistenza e controffensiva all’espansionismo del Terzo Reich.
Entrambi si preparavano alla cogestione della Guerra fredda tra grandi potenze, ma nonostante la perdita dell’impero vittoriano, che la Carta atlantica aveva messo in questione per ragioni storiche evidenti, nessuno si poté liberare dal suo esercizio estremo della responsabilità e della risolutezza, anche nelle condizioni solitarie e drammatiche del 1940, l’anno della battaglia aerea e poi del Blitz su Londra. Diversa sarà la parabola di Berlino e Parigi che avranno perduto per estremo tatticismo l’autonomia politica di fronte alla convergenza tra l’isolazionismo manovriero e pragmatico di Trump e il revanscismo di Putin. Quanto all’Italia, temo che nonostante tutto il serio e il decente realizzato dovremo consolarci con le barzellette di Putin su Berlusconi.