Società e proiettili
Un'America bagnata di sangue, da sempre, e nutrita di ipocrisia e rancore
Nel suo ultimo saggio, Paul Aster decide di guardare in faccia con sgomento un paese in cui le armi da fuoco rappresentano ancora un'idea di libertà e realizzazione, nonostante i proiettili uccidano oltre cento americani al giorno
Deceduto quest’anno, Paul Auster, uno dei migliori e più noti scrittori americani, ci ha lasciato come testamento morale un libro raccapricciante sulla società e sui crimini più insensati negli Stati Uniti. Non omicidi ma stragi compiute senza una comprensibile ragione da individui letteralmente indemoniati, cioè posseduti da un incoercibile spirito di distruzione e di odio per gli altri esseri umani. Il saggio di Paul Auster, Una nazione bagnata di sangue, accompagnato da una serie di foto di luoghi delle stragi (Einaudi, 106 pp., 24 euro) ci parla del diritto al possesso di armi da fuoco per autodifesa, ma non si trascura la presenza costante della violenza omicida e della violenza sociale lungo tutta la storia degli Stati Uniti, prima e dopo la loro stessa nascita politica.
Il saggio ha un’importanza eccezionale perché è un bilancio dell’autocoscienza di uno scrittore che decide di guardare in faccia con sgomento il passato recente e remoto del paese che da un secolo domina la storia dell’Occidente con la sua realtà economica, il suo potere politico e il suo mito culturale. Quello che ne emerge è la presenza costante nella storia americana delle armi da fuoco e del loro uso. La colonizzazione del territorio non sarebbe stata possibile senza lo sterminio degli indiani nativi, e la sua economia non si sarebbe sviluppata senza una competitività febbrile e spietata; senza la schiavitù dei neri e la loro manodopera a costo zero. Tutto cominciò con le milizie coloniali di uomini armati per tenere asserviti gli africani e per combattere e sterminare popolazioni autoctone che cercavano di difendere i loro territori. Uno stato di guerra su due fronti durato a lungo, la cui etica perversa non è stata corretta neppure da Thomas Jefferson, che scrisse la prima bozza della Dichiarazione americana, “forse l’esempio più fulgido del conflitto ontologico insito nel progetto americano (…) Benché figlio di un facoltoso proprietario di schiavi, capiva che la schiavitù era (parola sue) una ‘macchia orrenda’ e una ‘depravazione morale’, mentre che mandava avanti una proprietà con seicento schiavi”.
Questa madornale ipocrisia, su cui si è basata la vita sociale di una pretesa, sedicente democrazia, ha permesso fino a ieri e a oggi comportamenti razzisti, illegali e criminali. Auster inizia il suo discorso con un episodio autobiografico e famigliare, un delitto che ha provocato un incancellabile trauma tra i suoi parenti: suo nonno era stato ucciso da sua nonna con due colpi di pistola. Gli omicidi, poi, non colpiscono solo chi li compie e chi li subisce, coinvolgono psicologicamente e moralmente anche parenti e amici. E in una società come quella americana, in cui le stragi abbondano, tutta la storia nazionale risulta “bagnata di sangue”, dove i bambini sono stati abituati, anche prima di andare a scuola, a essere bombardati quotidianamente da telefilm western di serie B. L’autore stesso, benché nella sua vita non abbia mai posseduto un’arma da fuoco, fin da bambino ha sentito che non sarebbe mai diventato un eroe senza la pistola. Il Selvaggio West e il gangsterismo novecentesco, con tutta la quantità di film e telefilm che ne sono stati ricavati, “milioni di grandi e piccoli schermi da un capo all’altro dell’America erano subissati da immagini di sparatorie”. Sparare, ferire o uccidere sono azioni così frequenti che gli americani “rischiano di restare vittime di un’arma da fuoco venticinque volte in più dei loro omologhi che vivono in altri paesi ricchi e cosiddetti avanzati”.
L’elenco delle stragi atrocemente assurde mostra che “i proiettili uccidono in media oltre cento americani al giorno: ottantamila feriti e quarantamila morti all’anno, con milioni di altri individui che subiscono direttamente o indirettamente la violenza delle armi”. Eppure un tale problema nazionale non è stato mai seriamente affrontato. Il rapporto con le armi da fuoco resta una profonda mitologia nazionale che ancora rappresenta “un’idea di libertà e di realizzazione individuale”. L’intera società, contagiata dalla paura delle armi, tende a considerare il possesso di armi il solo modo che i singoli possono avere per difendersi dalle armi altrui.
Anche se “la percentuale delle famiglie che detengono armi in casa è in costante calo da cinquant’anni (…) il numero di armi attualmente possedute dagli americani non è mai stato così alto”; cioè “sempre meno persone comprano sempre più armi”. Fra costoro, i pazzi e paranoici assassini non mancano: “negli ultimi dieci anni si sono verificati duecentoventotto episodi di violenza armata nelle scuole e nei college. Trenta sono stati così estesi da rientrare nella categoria di sparatorie di massa”. Gli assassini erano giovani dai quindici ai ventisei anni e “tutti avevano mostrato chiari segni di squilibrio mentale ed emotivo (…) I quattro di maggiore età erano ossessionati dalle armi, quasi senza amici e ostili verso i compagni di scuola, e covavano rancori repressi contro le persone che ritenevano responsabili della loro vita misera e isolata”. Ma la loro “ottenebrante solitudine” era “la stessa che spinge milioni di altri americani a cercare conforto in varie forme di annientamento: abuso di sostanze, abuso di alcolici e fughe dissociative ossessive nei labirintici meandri di Internet. Vite di lenta autodistruzione che anno dopo anno si traducono in decine di migliaia di ‘morti per disperazione’, una nuova definizione per un nuovo tipo di infelicità americana (…) perché la verità è che ogni persona che ha intenzione di uccidere a caso schiere di sconosciuti qualsiasi sta architettando anche il proprio suicidio”.
Suicidi americani da solitudine, disperazione e rancore. Ma se non si guarda a che cosa stanno producendo le nostre società e la nostra socialità in mutazione, non si capisce in che direzione i singoli rischiano di andare. Se cioè gli Stati Uniti sono tuttora (ancora per poco?) all’avanguardia nei comportamenti antisociali, allora anche l’Europa, nonostante la diversità della sua storia e cultura, nel prossimo futuro può essere a rischio di analoghi impulsi disperatamente distruttivi e autodistruttivi. Incombe quella che uno dei padri della sociologia classica, Durkheim, definì anomia: quell’assenza di norme e di valori sociali condivisi che nasce da una disintegrazione sia della società che della personalità, quando i mutamenti di cultura e di struttura sociale sono così veloci che si spalancano dei vuoti.
l'editoriale dell'elefantino