l'editoriale dell'elefantino
Vita donna e libertà: Cecilia Sala e le sue sorelle d'avventura
Nel carcere di Evin sta una persona che non fa sconti nella propria percezione del bene e del male, ma è e si sente parte del mondo che origina il suo sguardo professionale e personale. Le frontiere del fanatismo possono quasi nulla contro la sua volontà di sapere
Guardando con apprensione e affetto le fotografie di Cecilia Sala, arrestata senza imputazioni e ristretta nel carcere famigerato di Evin, a Teheran, non si può non pensare che il suo volto, molto bello, è somigliante, forse identico, a quello di tante ragazze iraniane mostrate in effigie dalle durissime cronache politiche del regime e delle sue pratiche repressive. Stupefacente aver già visto nelle protagoniste del movimento “Vita donna e libertà” gli stessi occhi, lo stesso ovale, la stessa freschezza di tratto e perfino lo stesso trucco, lo stesso colore del rossetto sulle labbra, la stessa espressione di intelligente innocenza. La giornalista italiana ora sta in una di quelle celle dove stanno o sono state molte delle sue compagne di generazione, sorelle in usi e costumi e vita che accomunano chi può e chi non può esercitare le più elementari libertà, in particolare quelle femminili oggetto di contesa nelle incerte e tortuose vie della civilizzazione moderna.
Si deve sperare, a parte il resto dell’intrigo che ha portato a questo, che le autorità di Teheran, qualcuno tra loro che sia illuminato dalla curiosità psicologica e umana, trovino il tempo e il modo di farsi leggere gli articoli di Sala e di vedere le storie da lei raccontate nel suo podcast. Esiste, è esistito per circostanze di necessità, un giornalismo fiero e provocatorio, un modo di raccontare che si presenta come una sfida, di cui la celebrità di Oriana Fallaci, corrispondente di guerra del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo, è stata simbolo e specchio. Sala appartiene a un altro mondo e a un altro linguaggio, può essere travolta anche lei da una giornata tempestosa di ingiustizia, ma il suo modo di registrare la realtà che vede e documenta ha il crisma dell’affinità e della sensibilità prima che quello dell’opposizione e dell’ideologia. Non che faccia sconti nella propria percezione del bene e del male, come sa chi ha letto quel che ha scritto e ascoltato quel che aveva da dire dall’Ucraina all’Iran, ma è e si sente parte del mondo che origina il suo sguardo professionale e personale, vita donna e libertà sono parole che la assimilano alle cose viste oltre ogni confine, in un tutto unico. La sua curiosità e la sua tecnica sono elementi di un altro secolo, riunificato e omologato nella sorpresa e nello sconcerto per le negazioni e i divieti del fanatismo, quanto di più estraneo ai vezzi e ai vizi di quello che fu definito “orientalismo”, con riferimento alla spiccata identità occidentale, in sospetto di cultura coloniale nel famoso saggio di Edward Said. Nel carcere di Evin sta una persona che oriente e occidente non definiscono, a partire da idee e pregiudizi, una come loro, come le sue compagne di detenzione che pagano come reato o oltraggio religioso quel che per lei è normale, ordinario, dall’acconciatura al resto del linguaggio del corpo.
Difficile comunicare questo nitore e questo stile universale di una generazione nuova e delle sue parole e immagini, ma bisognerebbe provare a farlo nonostante tutto, sperando che in quella teocrazia elettiva, paradosso dei paradossi, si trovi ancora qualcuno capace di capire che le barriere del tremendo e dell’orrendo, cioè le frontiere del fanatismo, possono quasi nulla contro una volontà di sapere e di scoprire che segue le vie di queste sorelle d’avventura, così lontane tra loro nell’immaginazione del regime, così vicine nello specchio della realtà.
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