il colloquio
Cecilia Sala ha dato speranza agli iraniani, ci dice Azar Nafisi
Colloquio con la scrittrice iraniana in esilio a Washington: "Evin è un luogo terribile. Essere incarcerati in isolamento, con persone che non parlano la tua lingua, è di per sé una forma di tortura. Riportiamola a casa"
"Persone come Cecilia Sala portano speranza, ci fanno capire che quando si tratta di diritti umani e di connessione non ci sono confini di distanza o di lingua. Ha portato molta speranza agli iraniani che hanno parlato con lei, che sapevano che le loro storie avrebbero ricevuto attenzione. Dovremmo fare il possibile per farla uscire”, dice al Foglio la scrittrice iraniana Azar Nafisi, che ha appena finito di scrivere una lettera per Cecilia, detenuta dal 19 dicembre nel carcere di Evin, arrestata arbitrariamente dal regime iraniano. “La speranza, parafrasando Václav Havel, non è la convinzione che ciò che fai sarà premiato – continua Nafisi – ma è fare qualcosa perché è giusto, perché ha un senso. E’ la speranza delle donne e degli uomini che vanno in prigione. Sanno che potrebbero morire in qualsiasi momento, ma finché vivono, non permettono al regime di vincere vedendoli mendicare, cambiare”.
Nafisi, che si oppone da sempre al regime iraniano, ha scritto “Leggere Lolita a Teheran”, che è appena diventato un film di Eran Riklis, e di recente di “Leggere pericolosamente”, una raccolta di saggi sul potere sovversivo della lettura. Ci parla da Washington, dove vive in esilio da trent’anni, e quando nominiamo Evin, il famigerato carcere di Teheran, prende tempo. “Per me è molto difficile parlarne. Il solo nome evoca paura e inquietudine nelle persone. Cosa posso dire se non che è un luogo terribile? Essere incarcerati in isolamento, con persone che non parlano la tua lingua, è di per sé una forma di tortura”.
Cecilia è da sola, in isolamento. La violenza psicologica “è in alcuni casi più efficace di quella fisica – continua Nafisi – Hai l’impressione che il mondo non sappia di te, che non si curi di te. Ma non è vero. Ed è per questo che è molto importante creare un contatto con i prigionieri, per far sapere loro che non sono soli, che il mondo sta pensando a loro. Nel caso di Cecilia Sala, la visita dell’ambasciatrice è una cosa molto positiva: lei sa che ci si sta muovendo per lei”. Esiste una rete di solidarietà a Evin tra le persone che sono dentro e l’esterno? “Si trovano sempre modi diversi di comunicare, come il codice Morse”. Secondo Nafisi le persone sono più coraggiose che in passato, e trovano modi per parlare con l’esterno. E’ anche convinta che il regime sia diventato debole. “La violenza a cui sta ricorrendo, come l’arresto di Cecilia, è un segno di disperazione. L’unico linguaggio rimasto al sistema è la violenza. Ma l’opposizione, per cui persone come Cecilia sono fondamentali, non usa armi, non brucia tutto. Mette a tacere il rumore dei proiettili cantando e ballando”. Donna, vita, libertà: è una spinta vitale. “Non è uno slogan politico, è esistenziale. Senza libertà, non c’è vita. Quando vivevo nella Repubblica islamica e in pubblico dovevo vestirmi in un modo che non mi apparteneva, per me era una forma di morte. E’ molto doloroso rinunciare alla propria identità, negare chi sei. Le donne iraniane si sono rifiutate di rinunciare alla loro identità. Il regime ha provato ogni forma di repressione, ma non può farci niente: sono pronte a dare la loro vita”.
Come scrive Nafisi in “Leggere pericolosamente”, la ribellione passa da piccoli, enormi gesti di trasgressione: i gruppi di lettura clandestini che per anni la scrittrice ha portato avanti con le sue studentesse, certo, ma anche stringere la mano a un collega maschio, mettere la crema per il corpo o tenere la mano del proprio fidanzato in pubblico. Sono gesti quotidiani che in un regime totalitario vogliono dire: “Non mi avete, non controllate le mie azioni, i miei sentimenti, i miei pensieri”. La ribellione quotidiana al controllo pervasivo e alle forme di violenza peggiori è estenuante, ma è fondamentale non abituarsi e, come scrive, “non permettere alla brutalità o alla confisca delle libertà individuali di diventare una routine, la norma”. Il totalitarismo è come un cattivo romanziere, mentre la finzione narrativa è per sua natura democratica. “Ci sono molte voci, e anche il cattivo, il villain, ha possibilità di esprimersi. Nell’autocrazia la voce del sovrano è l’unica voce, che confisca quelle degli altri, le ruba. La fiction rivela verità”. Il giornalismo fa lo stesso: “I giornalisti, e quindi donne come Cecilia Sala, che non hanno armi, non sono spie, hanno solo la verità, sono pericolosi perché rivelano i fatti: i fatti non sono favorevoli agli autocrati”.
Il giorno prima di essere arrestata, Cecilia Sala aveva raccontato nel suo podcast quotidiano “Stories” (Choramedia) la storia di Zeinab Musavi, una stand-up comedian che era stata incarcerata. C’è spazio per l’umorismo? “In Iran facciamo umorismo su tutto: sul sistema, sul regime, su noi stessi. E’ un modo per dire no, per dire che chi usa il suo potere per uccidere non è poi così importante. Che noi che non abbiamo armi, abbiamo una forza che non si può spezzare”. In “Leggere pericolosamente” Nafisi parla di molti scrittori e scrittrici (sui libri si definisce “promiscua”) che con la loro immaginazione hanno aperto le porte della libertà – come Shahrnush Parsipur, Elias Khoury, David Grossman, ma anche Margaret Atwood, Nora Neale Hurston, James Baldwin – ma in questa nostra conversazione torna sulla storia di Shahrazad delle “Mille e una Notte”, la madre di tutte le storie, che ha radici nel suo Iran. Il re scopre che sua moglie lo tradisce, e la uccide senza processo, senza chiederle perché. Da quel momento ogni notte sposa una vergine e al mattino la uccide. Quando è il turno di Shahrazad, lei depone il coltello e inizia a raccontare storie al re. Lui vuole sapere come vanno avanti, e ogni mattina lei sopravvive. Diventa curioso, inizia a provare empatia e così cambia. Shahrazad non cambia la realtà con la violenza, ma con la curiosità e l’empatia. “La letteratura apre i nostri occhi mostrandoci il bene e il male, non dà giudizi, ma comprensione”. Nafisi ha appena finito di scrivere una lettera per Cecilia per farle sapere che qui stiamo facendo tutto il possibile per riportarla a casa, che non è sola.