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Il colloquio

Il difficile lascito di Carter: ragione, fallimenti e successi oltre la retorica. Parla il suo speechwriter

Matteo Muzio

Nonostante una presidenza travagliata, ha provato a restituire dignità alla Casa Bianca dopo il Watergate. “Voleva dire le cose nel modo migliore, basandosi sui fatti e non sugli artifici politici”, dice Bob Rackleff

L’ex presidente americano Jimmy Carter, scomparso all’età di cent’anni il 30 gennaio, non è stato fortunato nella sua carriera da inquilino alla Casa Bianca: pesantemente sconfitto da Ronald Reagan alle presidenziali del 1980 dopo una stagione difficilissima di crisi internazionali ma anche di forte inflazione e di scarsa crescita economica, all’epoca attribuita alla sua poca capacità di leadership. Recenti studi dimostrerebbero che forse le cose non erano così semplici, ma ad ogni modo è difficile stabilire con certezza cosa non abbia funzionato.

 

Di sicuro Carter a suo modo è riuscito in un compito altrettanto complicato: restitituire dignità alla carica presidenziale che era rimasta danneggiata dalla vicenda del Watergate che aveva rivelato agli americani che anche i presidenti possono mentire pubblicamente. Carter cercò con successo di riavvolgere il flusso del tempo per far tornare la Casa Bianca alla dignità originaria. Per farlo, il neopresidente semisconosciuto, con una sola esperienza politica come governatore della Georgia, aveva bisogno di ricostruire una retorica.

Per Bob Rackleff, membro del team di scrittura dei discorsi presidenziali dal 1978 al 1981, è qualcosa che è andato a segno ma solo in parte. E non era solo un problema di discorsi. Spiega al Foglio: “Nixon, per dire, era molto più bravo con i discorsi, ma le persone sapevano chi era, e non funzionavano”. Carter invece, racconta l’ex collaboratore, “voleva basarsi sui fatti, non sopportava di dover ricorrere a quelli che lui chiamava gli artifici della politica”. Non è un caso, infatti, che almeno sul punto del voler “prosciugare la palude washingtoniana” l’austero Jimmy abbia guardato se non con simpatia con curiosità al primo periodo presidenziale di Donald Trump. Un tentativo che poi però non è mai avvenuto fino in fondo.

Carter invece quantomeno ci aveva provato ad andare fino in fondo, sia pur con pochi strumenti a sua disposizione e nessuna conoscenza dei meccanismi che regolavano il potere washingtoniano. Per Rackleff però, alla fine, c’erano anche delle difficoltà oggettive di comunicazione tra i ghostwriter cresciuti nel mito di due grandi oratori democratici come Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy e un presidente che semplicemente “voleva dire le cose nel modo migliore”.

Lui poi in particolare aveva un incarico molto particolare, quello di scrivere discorsi brevi, da utilizzare a stretto giro in occasioni impreviste e racconta però che in certi discorsi è riuscito “a dare una giusta impronta a quello che Carter voleva fare per l’America, come in occasione della firma per la legge Superfund, un provvedimento che impone cospicui risarcimenti per le aziende che inquinano un territorio, avvenuta l’11 dicembre 1980, dopo la sua sconfitta alle elezioni di quell’anno”. Raramente però Carter è stato così fortunato, non lo è stato ad esempio con la ricezione del suo famoso “Malaise Speech”, un discorso che ha tenuto in diretta televisiva il 15 luglio 1979 per far fronte alla “crisi di fiducia” della società americana.

Rackleff spiega il retroscena che sta dietro a questo momento cruciale della presidenza americana: “Anche se non ero direttamente coinvolto nella sua stesura, ho seguito tutto passo passo. Inizialmente il discorso è andato bene e il presidente ha guadagnato dieci punti di popolarità, perché è sembrato essere sul pezzo e pronto ad agire sui problemi. Quello che sbagliò fu nei mesi successivi: scelse di silurare diversi membri della sua amministrazione e chiese a molti membri del suo staff di rispondere a un noioso e interminabile questionario, anziché dedicarsi subito all’azione come aveva promesso. Quindi questo lo fece sembrare incerto e all’esterno venne proiettata un’immagine di assoluto caos”. Per Rackleff però c’è un altro punto: “Si accusavano le persone di essere troppo viziate, mentre l’opinione pubblica americana spesso è razionale. Da quel punto di vista fu poco empatico ma in quel periodo alla Casa Bianca andava forte un saggio scritto dal sociologo progressista Christopher Lasch, “La cultura del narcisismo”. Le tesi di quel libro, che dipingevano un’America troppo concentrata su sé stessa, oggi mi sembrano spazzatura”.

Insomma, anche con le parole Carter non ebbe molta fortuna, anche se Rackleff afferma che, pur volendo comunicare le cose in modo “razionale e non emotivo”, Carter abbia ottenuto risultati duraturi sia in politica interna, come nella già citata legge sul Superfund ma anche nella liberalizzazione del trasporto aereo e nelle politiche sul clima. “I suoi meriti” conclude “andranno oltre la sua retorica spesso non totalmente a fuoco”. Quello che però rimarrà sarà proprio il suo merito meno, quello di aver salvato l’immagine presidenziale. Che ha preservato anche affinché il suo successore Ronald Reagan la potesse usare con un tale successo.

 

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