(foto di Luca Gambardella)

reportage

Tra le ossa della Siria

Luca Gambardella

La mamma di Saleh rovista tra le pietre, prende un cranio, lo rigira tra le mani: “Non è di un bambino, non è di mio figlio”. I siriani ricostruiscono memoria e futuro tra le fosse comuni di Tadamon e le gabbie di Sednaya, aspettando un’inchiesta internazionale sull’orrore di Assad

"Aspettami qui!”, dice un bambino che all’improvviso corre all’interno dello scheletro di un palazzo distrutto dalle bombe del regime di Bashar el Assad. Avrà una decina di anni e gioca in ciabatte con altri suoi coetanei in questo teatro degli orrori chiamato Tadamon, periferia sud di Damasco. Torna con un sorriso,  stringe tra le sue piccole dita le ossa di un cranio raccolte poco più in là. Poco dopo lo raggiunge un suo amico, avrà la stessa età, fa vedere quello che era il femore di una delle centinaia (o migliaia?) di persone uccise in questo mattatoio a cielo aperto. La chiamano “red zone” ed è solo una parte del quartiere che fino a meno di un mese fa era controllata dal regime che impediva a chiunque di entrare e di uscire. Ora che Assad è fuggito, decine di disperati sono tornati. Molti di loro chiedono solamente una cosa: “Scavate e diteci la verità sui nostri cari”.

 

Nel 2022 due ricercatori di Amsterdam si ritrovarono per le mani un video datato 16 aprile 2013 e recuperato da un militare del regime. Era rimasto talmente sconvolto dal filmato che decise di sottoporlo a un’indagine all’estero. Il video mostrava il massacro di decine di persone che, legate e bendate, venivano condotte sull’orlo di un fossato. “Che devo fare?”, chiedevano terrorizzate le vittime. “Corri. Devi solo correre”, gli rispondeva il carnefice, il maggiore Amjad Yousef dell’unità 227, quella dell’intelligence militare del regime. Dopo due passi, una raffica di colpi e il corpo che cade nell’enorme fossa comune. Il video mostra almeno 41 esecuzioni. Ma i residenti dicono che Tadamon non è stato un episodio isolato: era  un metodo. “Qui è pieno di fosse come questa”, racconta uno dei vecchi abitanti che gestiva un bar. “Una volta stavo servendo il tè a due militari. Gli chiesi come fosse andata la giornata e loro mi risposero che avevano appena finito di scavare un grosso buco per terra. Gli chiesi il motivo e loro mi risposero: ‘Per riempirlo’, e scoppiarono a ridere”. 

(foto di Luca Gambardella)

Saleh fuma nervoso una sigaretta mentre indica il terzo o quarto piano di uno dei palazzi che si affacciano sulla fossa comune. “Lo sto rimettendo a posto. Non ho più soldi per pagarmi l’affitto e con lo stipendio da pittore al massimo riesco a procurare l’indispensabile per me e la mia famiglia”. La disperazione e la povertà a cui Saleh è stato ridotto dopo 13 anni di guerra non gli danno  scelta: “Ho due figli. Lo so che quando tornerò a vivere qui loro finiranno per giocare come gli altri bambini in questo posto d’inferno. Ma cos’altro posso fare? Non ho dove andare”.   

 

Prima ancora che il regime di Assad salisse al potere, questo quartiere era aperta campagna. Cominciò a popolarsi dopo la Guerra dei Sei giorni, verso la fine degli anni Sessanta, con l’edificazione di case in modo disordinato da parte dei siriani fuggiti dal Golan occupato dagli israeliani. All’inizio della guerra civile, qui si concentrarono molti gruppi di opposizione al regime, che intervenne con una brutalità tanto inaudita quanto sconosciuta al resto del mondo. Le case furono distrutte perché l’esercito non voleva che i ribelli tornassero nelle proprie case. Ma la rappresaglia nei confronti degli abitanti di Tadamon fu  più spietata che altrove.  Come una pentola dalla quale solo ora si alza il coperchio, gli orrori commessi dal regime di Assad stanno venendo alla luce anche per gli stessi siriani.


Raccolgono in ciabatte  le ossa negli scheletri dei palazzi e nelle fosse. Ridono, ma sono terrorizzati dalla morte. Il video delle donne massacrate che nessuno ha voluto mostrare


Per anni, centinaia di famiglie hanno considerato le fosse comuni come  degli incubi, delle ombre nelle proprie menti su cui era impossibile trovare conferme. Ora hanno scoperto che queste ombre sono la verità, ma la portata di questi massacri è ancora adesso incalcolabile e solo adeguate indagini forensi potranno accertarne le dimensioni reali. “Qui però non c’è nessuno”, dice il papà di Hashim Massawi: “Dove sono le organizzazioni internazionali? Dov’è il resto del mondo? Ci hanno lasciati soli prima del massacro e anche ora che tutto è finito”. Dall’8 dicembre, il giorno della caduta del regime, fino a oggi nessuno è venuto qui a sollevare la terra con cui sono stati ricoperti i corpi della fossa comune o a ispezionare le altre aree che, secondo gli abitanti, nascondono altre centinaia di corpi. I White Helmets, il corpo del pronto intervento che si sta occupando delle indagini dei massacri del regime, dice di non avere abbastanza uomini da  dislocare in ognuno dei luoghi delle stragi. A essere impegnati in quello che somiglia a un gioco tragico sono i bambini che passano le loro giornate correndo tra i calcinacci a raccogliere le ossa che emergono qua e là. Ridono, ma sono terrorizzati dalla morte, che emerge dalle macerie di Tadamon. “Abbiamo paura”, dice uno di loroi.
Hashim mostra la foto del piccolo Saleh, che aveva 14 anni il giorno in cui è sparito dietro al vicolo in cui oggi si trova la fossa. Gli occhi scuri e i capelli neri scendono sui lati della fronte. Aveva detto a sua madre che sarebbe uscito in strada a giocare con i suoi amici. L’ultima volta che l’hanno visto è stato proprio il giorno del massacro, nello stesso vicolo. Il padre Hashim era un poliziotto e la sera, tornato a casa, cominciò a preoccuparsi non vedendo tornare suo figlio. “Andai a cercarlo lì dove ora c’è la fossa, ma i militari mi fermarono: ‘Che lo cerchi a fare?’, mi dissero. Risposi che ero un poliziotto, ma mi dissero che a loro non interessava”. 

(foto di Luca Gambardella)

La madre di Saleh scende dal taxi e cammina a fatica fino al punto  in cui avvenne il massacro. Si piega e si mette a spostare le pietre. Raccoglie da terra il pezzo di un cranio e se lo rigira tra le mani: “Questo non è di un bambino”, dice a sé stessa quasi sollevata, perché una madre non dovrebbe mai ritrovarsi a rovistare in cerca delle ossa dei propri figli. In questi anni è stata arrestata due volte, solamente perché andava in giro per il quartiere a chiedere notizie. Per lei la speranza che il piccolo Saleh sia ancora vivo non è  spenta. Appena suo marito mostra la foto del piccolo Saleh, la donna vuole fermarlo: “Se la fai vedere a tutti e lui è ancora vivo potrebbero fargli del male”, gli dice cercando di non piangere. Il dolore della perdita di suo figlio sembra avere cancellato ogni cosa, persino gli eventi storici che da meno di un mese hanno cambiato il volto della Siria, portando alla caduta della dittatura di Bashar. Per la madre di Saleh è come se il regime fosse ancora al suo posto, come se suo figlio potesse ancora essere tra le mani dei servizi segreti di Assad. Come molti altri in questo popolo a cui la giustizia è stata negata, anche i genitori di Saleh sono andati fino al carcere di Sednayah per cercare informazioni che dimostrassero che loro figlio fosse detenuto lì e non fosse stato ucciso. Non hanno trovato nulla e ora cercano risposte qui, a Tadamon. “Fatela vedere questa foto! – urla il padre in lacrime – dobbiamo avere giustizia!”. 

Il regime accecato dalla volontà di umiliare, di torturare e di uccidere chiunque non ha avuto riguardi nemmeno per bambini come Saleh e si sospetta che assieme a lui, nella fossa comune, siano finiti altri della stessa età. Non ha avuto riguardi nemmeno per le donne: esiste un secondo video considerato dai ricercatori di Amsterdam talmente rivoltante da avere preferito evitarne la circolazione. Sulle motivazioni dei massacri, tutti parlano di un odio viscerale del regime alawuita nei confronti dei sunniti. “E’ il loro modo di agire, è uguale a quello dell’Iran”, dice Mustafa, un muratore che abita nel quartiere. Quello dell’odio settario resta ancora oggi il lato oscuro di questa nuova Siria. A Tartous, Latakia, Hama, Homs e Damasco si registrano casi isolati di violenze dei militari di Hayat Tahrir al Sham (Hts), ora al potere, ai danni di alawuiti e cristiani. Una violenza a ruoli invertiti, perpetrata stavolta dalla maggioranza sunnita: spetterà al nuovo leader del governo di transizione, Ahmed al Sharaa, tenerla a bada.


“Le esecuzioni si svolgevano per impiccagione, all’esterno del carcere, oppure i detenuti venivano legati facendoli rannicchiare in posizione fetale e percossi sulla spina dorsale, finché non sputavano sangue. Molti però morivano prima, chi per torture, chi per la fame, chi per la tubercolosi”


Secondo gli abitanti di Tadamon, le violenze dei militari di Assad si ritorcevano anche contro i bambini. “Rapivano quelli di 9-10 anni e li violentavano”, urla una donna che accorre alla fossa. Molti ripetono il nome di uno dei responsabili delle violenze, uno di qui che si faceva chiamare “Abu Mario”, considerato un assassino senza scrupoli al soldo dei servizi segreti. Accuse che dovranno essere verificate e su cui servirà un’indagine internazionale. Per il momento però a Tadamon non si è presentato nessuno. 
“Io mi chiamavo 2.500”. Ha le spalle curve e le dita ancora piegate dalle torture patite nel carcere di Sednaya, il suo vero nome è Muhammad al Hasan. Fino a poco meno di un mese fa era convinto che sarebbe stato ucciso da un momento all’altro e ora il solo fatto di essere qui, seduto a bere una tazza di caffè in una piazza di Yarmouk, gli sembra un miracolo. “Era il mio nome, 2.500 – riprende Muhammad – Era il numero che mi avevano dato le guardie quando mi hanno rinchiuso a Sednaya. Era vietato chiamarsi con i propri nomi”. Cinque anni trascorsi in una cella di pochi metri, gettato per terra assieme a decine di altre persone. “Eravamo circa una trentina per ognuna. Aspettavamo che uccidessero qualcuno di volta in volta per provare ad avere più spazio”.
L’inizio della storia di Muhammad risale a un giorno di dicembre del 2019. Una pattuglia dell’esercito ferma l’auto di Muhammad a Yalda, un quartiere tra Tadamon e Yarmouk. In quanto palestinese, nella Siria del regime, Muhammad era l’equivalente di un fantasma. A partire dagli anni di Hafez el Assad, il padre di Bashar, la questione palestinese è sempre stata usata dal regime come una carta politica da giocare in base alle proprie necessità. Se da una parte si dichiarava apertamente sostenitore della causa palestinese, il regime imponeva ai rifugiati la più brutale privazione di diritti. Poveri, discriminati, senza documenti di identità, senza il diritto di possedere una casa, ai palestinesi non restava altra possibilità che essere rinchiusi nei campi, come quello di Yarmouk dove viveva Muhammad. Quando nel 2011 è iniziata la guerra civile, gran parte dei palestinesi si schierò con l’Esercito libero siriano, quello dell’opposizione. Altri, come il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, sostennero il regime e contribuirono a fare di Yarmouk un campo di battaglia perennemente sotto assedio, in cui negli anni si sono succeduti al Nusra, lo Stato islamico e infine il regime, che ne riprese il controllo nel 2017. 


“Ho chiesto  come sia possibile che una macchina dell’eliminazione del dissenso tanto complessa abbia operato senza il coinvolgimento di altri esterni al regime”, racconta l’attivista siriano. “‘Se dovessimo dare la caccia a tutti i responsabili dei crimini del regime dovremmo mettere in carcere mezzo paese’, mi hanno risposto” 


“All’inizio si misero a scherzare, erano gentili e mi offrirono una sigaretta. Ma poi i toni sono cambiati”, ricorda Muhammad, che all’epoca aveva 24 anni. “Senza dirmi il motivo mi hanno arrestato”. Dopo avere girato alcuni centri dell’intelligence militare, Muhammad viene rinchiuso in una cella dell’accademia militare a Maysaloon, un quartiere di Damasco. Lì viene torturato con percosse per due settimane. “Urlavano che ero un terrorista e volevano che confessassi. Io non sapevo di cosa parlassero”. Fin quando Muhammad viene portato a Sednaya: “Appena sono entrato ho pensato che per me era finita. Sapevo cosa significava finire in quel posto. Sono stato identificato e quando mi hanno preso le impronte digitali hanno usato l’inchiostro rosso. Ricordo che qualcuno mi aveva detto che lì dentro l’inchiostro rosso era riservato a chi era condannato a morte. Avevo perso ogni speranza di sopravvivere”.  Con un’udienza durata pochi minuti alla presenza di un giudice, gli mostrarono un video in cui c’era un uomo in motocicletta che sparava con il fucile. “Era chiaro che non ero io, ma non volevano ascoltarmi e mi hanno condannato all’ergastolo”. 

(foto di Luca Gambardella)

“E’ stata la preghiera a darmi la forza per continuare a sperare. Eravamo tutti videosorvegliati, anche nelle celle, e una volta mi hanno sorpreso mentre pregavo. Mi hanno subito prelevato e rinchiuso in una stanza di isolamento nel seminterrato”, racconta. A Sednaya, sul muro di una di queste celle destinate ai detenuti che violavano le regole, c’è ancora adesso una scritta in arabo che suona beffarda: “Una vita senza speranza non può considerarsi degna di essere vissuta”.
Due giorni a settimana, questa speranza veniva tradita per un detenuto in ogni cella. Le esecuzioni erano previste il lunedì e il giovedì. “Aprivano la porta e non appena il militare entrava sapevamo tutti che qualcuno di noi sarebbe stato ucciso – dice Muhammad – Ricordo che il cuore ogni volta mi batteva forte nel petto, perché ero disperato ma non volevo morire. Il militare leggeva un numero e sapevamo che quello sarebbe stato il prossimo a essere condannato a morte. Le esecuzioni si svolgevano per impiccagione, all’esterno del carcere, oppure i condannati venivano legati facendoli rannicchiare in posizione fetale e percossi sulla spina dorsale, finché la vittima non sputava sangue. Molti però morivano prima, chi per torture – sentivamo le urla continuamente – chi per la fame, chi per la tubercolosi”.

(foto di Luca Gambardella)

Il numero delle vittime, tra detenuti liberati ed esecuzioni compiute è ancora impossibile da definire. Si fanno molte supposizioni su che fine abbiano fatto i cadaveri dei condannati a morte – c’è chi ipotizza fosse comuni, chi parla di viaggi di camion colmi di corpi fino al mare. Nessuno sa ancora con certezza cosa sia accaduto perché, come a Tadamon, nessuna organizzazione internazionale è ancora andato a Sednaya per avviare le indagini. I fogli dei rapporti contenuti nei faldoni dell’amministrazione del carcere, prove di crimini abominevoli, sono ancora qui, gettati per terra, ricoprono il pavimento di camerate immense. Nomi, date, matricole, orari, resoconti. Un attivista siriano, che preferisce restare anonimo, spiega di avere chiesto agli uomini di Hayat Tahrir al Sham perché ancora non sia arrivato nessuno a indagare sugli scomparsi di Sednaya. “Ho chiesto anche come sia possibile che una macchina dell’eliminazione del dissenso tanto complessa abbia operato senza il coinvolgimento di qualcun altro di esterno al regime”, racconta l’attivista. “‘Se dovessimo dare la caccia a tutti i responsabili dei crimini del regime dovremmo mettere in carcere mezzo paese’, mi hanno risposto”. 

Gli unici che finora hanno tentato di indagare sono stati i parenti dei detenuti, che dopo l’8 dicembre si sono accampati nelle tende all’esterno del carcere. Disperate, per giorni, centinaia di persone hanno rovistato ovunque per cercare di scoprire la sorte dei parenti imprigionati anche decenni prima. “Se volevi avere informazioni sul luogo in cui era imprigionato un tuo parente dovevi pagare il regime – racconta la madre alla ricerca di un figlio scomparso – Se volevi sapere se era vivo, dovevi pagare ancora di più. E comunque non potevi fidarti delle risposte che ti davano”.

La metodicità con cui il regime portava avanti il massacro dei detenuti ha subìto delle variazioni notevoli negli ultimi tempi. “Nel 2023 – spiega Muhammad – hanno cominciato ad accelerare. Uccidevano una persona per ogni cella tutti i giorni”. Nei giorni immediatamente precedenti alla liberazione, invece, qualcos’altro è cambiato. “Una settimana prima che i ribelli arrivassero a Sednaya hanno smesso di torturarci. E un giorno prima non abbiamo più visto né sentito nessuna delle guardie. Eravamo confusi, non sapevamo cosa stesse succedendo. Finché non abbiamo sentito che gli uomini di Hts erano arrivati e hanno aperto la prigione e le celle”. 

 

Tra le coperte e i vestiti rimasti  per terra nel carcere di Sednaya, l’odore della nafta resta impregnato nei muri. Sembra un posto  abbandonato già da anni, non da appena pochi giorni, per quanto tutto sia vecchio, arrugginito, bruciato. E sono le cose forse meno evidenti a tradire la drammaticità del sistema repressivo del regime di Assad. Sono i locali riservati alle guardie, agli aguzzini dei detenuti, buona parte dei quali, ricorda Muhammad, “non erano politici o intellettuali, ma persone normali come me”. In questi stanzini di pochi metri, anche i carcerieri erano chiusi in gabbia e non è un caso che qui venissero assegnati quei militari che avevano trasgredito alle regole, per punizione. Una punizione funzionale e studiata, perché serviva ad accumulare la rabbia e l’odio necessari alle guardie per accanirsi sui detenuti, con cui erano costretti a condividere spazi  infernali. “Ogni volta che mi battevano con quel tubo riempito di cemento era come se ce l’avessero con qualcuno che ha ucciso i loro parenti”, ricorda Muhammad. “Per il futuro sogno di lavorare e di farmi una famiglia”, dice fumando una sigaretta. Lo sguardo è perso nel vuoto, gli occhi stanchi: “Però una parte di me, la mia mente, è ancora in quel carcere”.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.