Eredità e tormenti
Jimmy Carter non seppe scegliere tra i falchi e le colombe e l'Iran gli costò la rielezione
I segnali contrastanti, le troppe voci e la crisi degli ostaggi, gli Stati Uniti e l’occidente sentono ancora l’eredità confusa dell’ex presidente su Teheran
Se da quarantasei anni l’Iran è il vero problema del medio oriente, parte della responsabilità è anche di Jimmy Carter. Se dal 7 aprile 1980 non ci sono più rapporti diplomatici tra Washington e Teheran e oggi tocca alla Svizzera fare da mediatrice per trasmettere messaggi, un po’ è l’eredità lasciata dall’Amministrazione Carter. E vanno ricercate nell’epoca del presidente democratico di fine anni Settanta anche le radici di quelle tensioni continue che emergono in controluce nel caso dell’arresto della nostra collega Cecilia Sala.
Del presidente scomparso nel fine settimana, ormai centenario, si ricorderà molto in questi giorni quanto la crisi degli ostaggi in Iran gli sia costata la rielezione nella sfida con Ronald Reagan del 1980. Ma le ricerche storiche e i documenti americani declassificati in questi anni dipingono un quadro più complesso. A quasi mezzo secolo dalla rivoluzione iraniana che ha cambiato profondamente il medio oriente e il Golfo, la figura di Jimmy Carter emerge in parte come corresponsabile degli eventi, in parte come vittima politica della caduta del regime dello scià e dell’ascesa dell’ayatollah Khomeini. Le colpe di Carter, se come tali possono essere classificate, risiedono soprattutto nell’incertezza nel prendere posizione sulla questione iraniana e nel conflitto interno, durissimo, che si era sviluppato nella sua amministrazione tra i falchi e le colombe per la gestione del dossier Iran. L’esponente di punta del primo gruppo era il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, mentre l’ala che cercava mediazioni e soluzioni diplomatiche faceva capo al segretario di Stato Cyrus Vance.
Carter all’inizio del proprio mandato fece gesti che disorientarono gli esperti di vicende iraniane. Dal colpo di stato del 1953 che aveva installato al potere lo scià Mohammad Reza Pahlavi, l’Iran era sempre stato un solido alleato degli inglesi e degli americani, di estrema importanza geopolitica anche e soprattutto per contrastare il peso dell’Unione sovietica nella regione del Golfo. Negli anni di Richard Nixon e del suo segretario di Stato Henry Kissinger, l’America aveva sorvolato sui problemi che il regime dello scià aveva sotto il profilo dei diritti umani, favorendo un approccio pragmatico che aveva a che fare con due preoccupazioni geopolitiche: limitare l’Urss e garantire il flusso del petrolio iraniano.
Nel primo anno della sua presidenza, invece, Carter lanciò subito un affondo contro Reza Pahlavi, nell’ambito di una linea di politica estera che metteva i diritti umani al centro delle relazioni internazionali. Allo scià fu fatto arrivare un “cortese promemoria” per ricordargli la necessità di rispettare i diritti degli oppositori politici. Reza Pahlavi rispose con una limitata amnistia e permettendo alla Croce Rossa di entrare nelle prigioni del regime, in particolare in quella di Evin (dove adesso è rinchiusa Cecilia Sala) che era stata costruita nel 1972 per essere affidata alla gestione del servizio segreto dello scià, il famigerato Savak.
Il gesto di Carter era in linea con la sua visione degli affari internazionali e sicuramente motivato da preoccupazioni umanitarie, ma mandò un segnale di indebolimento del regime di Reza Pahlavi e di distacco degli americani, che rafforzò gli oppositori e fece alzare la testa soprattutto ai sostenitori di Khomeini, all’epoca in esilio in Iraq. L’allora presidente americano cercò di bilanciare le cose con una visita a Teheran e un discorso nel quale lodava “la brillante leadership dello scià” che aveva permesso all’Iran, a suo dire, di “diventare un’isola di stabilità in una delle regioni più problematiche del mondo”. Stavolta Carter fece infuriare l’opposizione sciita filo-Khomeini e alimentò ulteriormente il vento della rivolta.
Brzezinski provò a metterci una toppa rafforzando gli aiuti militari e dando garanzie allo scià, ma dal dipartimento di Stato Vance mandava segnali diversi e rilanciava le preoccupazioni sui diritti umani, chiedendo allo scià di fare una serie di riforme. L’effetto fu di disorientare un po’ tutti e in mezzo alla confusione la rivoluzione fece il suo corso, lo scià scappò in esilio e Khomeini tornò da trionfatore nel paese. Qui, come Reagan sostenne poi durante la campagna elettorale, Carter fece l’ulteriore errore di lasciare aperta l’ambasciata americana a Teheran, sperando di trovare con la diplomazia un dialogo con i rivoluzionari.
Ancora più confusa fu la gestione del problema che rappresentava lo scià malato, che chiese di essere curato negli Stati Uniti. L’ambasciata americana scongiurò Carter di evitare di dargli asilo, Vance era dello stesso avviso, ma il presidente si lasciò convincere dalle pressioni di Kissinger e Brzezinski. L’arrivo di Reza Pahlavi in America fu la scintilla finale che spinse gli studenti rivoluzionari, nel novembre 1979, a prendere d’assalto l’ambasciata, catturando 66 ostaggi e trattenendone poi 52 per quattordici mesi, segnando il destino politico di Carter. Il 7 aprile 1980 il presidente ruppe ogni rapporto diplomatico con l’Iran e da allora le relazioni non sono mai riprese.
Tra i tanti misteri ancora irrisolti che circondano quegli anni, ci sono le rivelazioni che lo scorso anno ha fatto l’ex vicegovernatore del Texas Ben Barnes al New York Times, parlando di un viaggio che lui e il governatore John Connally, un fedelissimo di Reagan, fecero nell’estate del 1980 in medio oriente. Secondo Barnes, servì a far arrivare all’Iran la richiesta di trattenere gli ostaggi fino alle elezioni del successivo novembre. Il regime di Khomeini fece di più e liberò gli ostaggi solo poche ore dopo che Reagan si era insediato come presidente, il 20 gennaio 1981.
Uno schiaffo finale a Carter, il presidente sotto la cui leadership l’Iran si è trasformato da alleato di ferro a bestia nera dell’America e gli Stati Uniti sono diventati il “Grande Satana”, che Teheran vuole abbattere insieme al nemico di sempre: Israele.