Giornalismo in gabbia
Così l'Iran silenzia i reporter. I casi di Saeideh Shafiei e Hossein Shanbehzadeh
In cella per un tweet, accusati di cospirazione e propaganda contro il regime e senza possibilità di visite dall'esterno, neanche per ricevere farmaci essenziali. Ecco come la prigione di Evin incatena il giornalismo
“L’Iran è il settimo peggior carceriere di giornalisti al mondo, per il numero di coloro che ha detenuto”, ha detto al Foglio Jodie Ginsberg, chief executive del Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj). “Ma i due casi più emblematici sono sicuramente quelli di Saeedeh Shafiei e di Hossein Shanbehzadeh. Lei perché soffre di un problema di salute e le è stato impedito di vedere la sua famiglia. Si trova nella stessa prigione di Evin dove è reclusa Cecilia Sala. Lui perché è stato condannato a 12 anni di prigione per un tweet”.
Saeedeh Shafiei è una giornalista freelance, specializzata in economia e industrie petrolifere e del gas. Ma adesso sta scontando una condanna a tre anni e mezzo di carcere per “cospirazione e collusione con l’intento di agire contro la sicurezza nazionale”, ai sensi dell’articolo 610 del Codice penale islamico, più 7 mesi e 16 giorni di prigione per l’accusa di “propaganda contro il regime”, ai sensi dell’articolo 500.
Secondo la Human Rights Activists News Agency, una agenzia di stampa gestita da esuli, è stata arrestata il 19 novembre 2023, dopo aver risposto a una citazione in giudizio per iniziare una pena detentiva risalente a diversi mesi prima. Già il 22 gennaio precedente era stata infatti arrestata nella sua casa a Teheran da agenti dell’intelligence del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche, per il modo in cui aveva coperto sui social network le proteste del 2022 dopo la morte di Mahsa Amini. Era stata allora messa in isolamento nel reparto 2A della prigione di Evin, gestita dall’unità di intelligence delle Guardie Rivoluzionarie, e durante l’arresto le forze di sicurezza le avevano confiscato i suoi dispositivi personali. Era stata poi rilasciata su cauzione il 7 febbraio, ma a agosto il giudice Iman Afshari, della sezione 26 della Corte rivoluzionaria di Teheran, l’aveva condannata, citando i suoi post sui social network come prova contro di lei. All’inizio di settembre è stata confermata in appello la sentenza, che include un divieto di due anni sia a lasciare il paese, sia a partecipare a qualsiasi gruppo politico o assemblea.
Secondo una fonte che ha parlato con Cpj in condizione di anonimato per paura di rappresaglie, Saeedeh Shafiei soffre di una condizione di salute per la quale deve assumere farmaci, che però in carcere le sono stati negati. Anche per questo, la Cpj a fine 2023 ha inviato un’email alla missione dell’Iran presso le Nazioni Unite, per chiedere un commento sui casi dei giornalisti imprigionati. Ma non ha ricevuto risposta. Defending Free Flow of Information in Iran (DeFFI), una organizzazione no profit con sede a Parigi, il 24 ottobre ha reso noto che i funzionari della prigione di Evin le avevano proibito di incontrare la sua famiglia. E’ stato Hasan Homayoun, il marito, a riportare questa notizia sul suo account X: “Mia madre è tornata dalla prigione con gli occhi pieni di lacrime perché hanno detto che a Saeedeh Shafiei è vietato ricevere visite. I miei genitori hanno viaggiato per mille chilometri da Marvdasht per vedere mia moglie”. Il tweet spiega anche che “a Saeedeh Shafiei e a diverse altre detenute nella prigione di Evin sono state negate le visite perché hanno cantato una canzone che commemora l’anniversario della morte di Mahsa Amini”.
Hossein Shanbehzadeh ha 35 anni, è uno scrittore e attivista, ed è da tempo attivo sui social network per sostenere i prigionieri politici e chiedere la rimozione del velo obbligatorio per le donne. E’ stato arrestato nel 2019 per alcuni commenti online che erano stati ritenuti degli inaccettabili insulti alla Guida suprema Khamenei. In seguito ha raccontato di questa esperienza, inclusa una fustigazione. Ma all’inizio di giugno è stato di nuovo arrestato ad Ardabil, nell’Iran nordoccidentale. Secondo Radio Free Europe, lui stesso alla famiglia ha riferito di non sapere esattamente il motivo, ma sarebbe successo poco dopo aver pubblicato una risposta al tweet di Khamenei, che mostrava il leader iraniano con la squadra nazionale di pallavolo del paese. E aveva ricevuto più “like” dell’ayatollah. Comunque è stato condannato a cinque anni per presunta attività di propaganda pro-Israele, a quattro anni per insulti ai santuari islamici, a due anni per diffusione di bugie online e a un anno aggiuntivo per propaganda anti regime. Il suo avvocato ha annunciato ricorso contro il verdetto, in particolare l’accusa di attività pro-Israele. Secondo Voice of America, l’ufficio del procuratore di Ardabil ha affermato che Shanbehzadeh era stato in contatto con ufficiali dell’intelligence israeliana ed è stato arrestato mentre cercava di lasciare il paese.