L'odio del regime iraniano per le donne libere
“Le cose che non ho detto” di Azar Nafisi racconta l’istante esatto in cui Khomeini stravolse l’Iran e l’illusione del cambiamento svanì. L’attacco alle donne, le sparizioni a Evin, la Teheran sotterranea
Figlia di un padre laico, impregnato di umanesimo religioso e di spirito di tolleranza, già sindaco di Teheran poi imprigionato dalla polizia dello Scià, e di una madre che era stata tra le prime donne entrate al Parlamento iraniano, Azar Nafisi già nel 2008 aveva scritto un libro capace di illuminare il carattere primario, imprescindibile, costitutivo, consustanziale dell’oppressione femminile nell’universo tirannico del khomeinismo. Si intitola, nell’edizione italiana pubblicata da Adelphi, “Le cose che non ho detto”. Un libro, coraggiosamente autobiografico e tutt’altro che indulgente sugli errori compiuti, meno celebre dello straordinario “Leggere Lolita a Teheran!" (di cui è appena uscita una versione cinematografica), ma che rivela l’esatto istante in cui la rivoluzione khomeinista sfoderò nel 1979 tutto il suo odio per le donne libere: il primo, immediato editto del regime degli ayatollah fu appunto un attacco violento alla libertà femminile che, nel cuore della modernizzazione autoritaria dello Scià, è testimoniato e ancora perfettamente visibile nelle immagini di allora: donne a capo scoperto, con abiti e trucchi identici a quelli indossati dalle “occidentali”, incarichi e ruoli pubblici ricoperti dalle donne. E il primo luogo dell’orrore repressivo è subito identificato nel carcere di Evin, riempito immediatamente di oppositori e dissidenti. E dove adesso il regime tiene sotto sequestro la nostra Cecilia Sala.
Azar Nafisi si era trasferita negli Stati Uniti per studiare, ma sperava con tutte le sue forze, come tante persone di sinistra dell’epoca, nella fine del regime dello Scià, moderno sì, favorevole all’emancipazione delle donne sì, ma che permetteva ai sicari della polizia segreta della Savak di agire indisturbati. Ai primi vagiti della rivoluzione che stava inesorabilmente disgregando il potere di uno Scià sempre più debole, malato, abbandonato persino dai suoi alleati, Azar Nafisi e i suoi amici laici furono elettrizzati dalla prospettiva di un radicale cambiamento, però con un furore ideologico che letteralmente non lasciava vedere il ruolo del fondamentalismo reazionario e integralista del clero islamico con a capo Khomeini. Scrive con sincero sgomento Azar Nafisi: “Se in un primo momento erano state le forze laiche a iniziare le proteste, adesso cominciarono a farsi sentire anche l’ayatollah Khomeini e i suoi seguaci”. Ma “noi, che eravamo troppo arroganti per considerarlo una minaccia e ignoravamo i suoi piani, lo appoggiammo”. Eravamo, scrive spietatamente di sé Azar Nafisi e del suo infervorato gruppo di giovani oppositori dello Scià, così “obnubilati dalle passioni e dall’euforia del momento” da considerare del tutto marginale, ininfluente il fatto che in un suo libro Khomeini avesse dettagliatamente auspicato “uno stato teocratico governato da un rappresentante di Dio”. Aveva inoltre, “ripetutamente denunciato il voto alle donne come una forma di prostituzione”. Per la figlia di una donna che era entrata in Parlamento con il voto delle donne i motivi di allarme sarebbero stati decisamente fondati. “Ma noi”, scrive ancora, “applaudivamo i suoi violenti attacchi contro gli imperialisti e lo Scià”, e del resto Khomeini aveva lasciato intendere “che una volta rientrato in Iran si sarebbe ritirato nella città santa di Qom, lasciando ai politici il compito di governare”. L’ennesima e tragica illusione, e forse nemmeno la più pericolosa. Una forma già nota di abbaglio collettivo che purtroppo aveva incantato, con il suono galvanizzante delle sirene rivoluzionarie, anche il mondo laico e progressista.
Del resto, sin dall’autunno del ‘78, quando Khomeini venne espulso dall’Iraq e si “trovò catapultato sulla scena mondiale”, il culto dell’ayatollah era sembrato incontenibile, un morbo contagioso, un atto di devozione che catturò persino molte menti “laiche” o addirittura irreligiose. Come quella del filosofo Michel Foucault, fustigatore della prepotenza repressiva dell’occidente nei confronti di ogni “devianza” (la segregazione della follia, della malattia, della sessualità non conforme) e che invece cadde in estasi a Teheran scorgendo nella rivoluzione dei fondamentalisti islamici nientemeno che un esempio illuminante di meravigliosa “spiritualità politica”.
“Mia zia Nafiseh, laica e istruita”, scrive la Nafisi, perfettamente “sana di mente, disse di aver visto l’immagine di Khomeini sulla luna” e aggiungeva: “sai che è successo a una donna per averlo calunniato? Di colpo è saltato fuori un gatto”. Scuoteva gli animi e accendeva l’immaginazione “il paradosso dell’uomo di Dio” che in esilio, in posa ieratica e con una determinazione intransigente “gira la schiena al mondo e intanto complotta e progetta di impossessarsene incantando milioni di ammiratori”. Poi, il primo febbraio del 1979, non restò a Khomeini nient’altro che fare il suo ingresso trionfale a Teheran, come la raccolta ingorda di frutta oramai matura: “L’ayatollah era stato consacrato imam, un titolo che l’Islam sciita conferisce ai successori del profeta Maometto. Proferire il suo nome invano o insultarlo avrebbe avuto serie conseguenze”. L’illusione laica e democratica, o ciò che ne era rimasto, si dissolse in pochi giorni. Fu brutalmente estromesso dalla guida del governo di transizione che avrebbe dovuto portare l’Iran verso un assetto democratico il nazionalista liberale Shapur Bahktiar, che si darà alla macchia per non essere catturato e giustiziato, ma che poi verrà assassinato da sicari della Repubblica islamica nel 1991. In quel preciso istante, nell’istante del trionfo, Khomeini si definì “santo legislatore” e stabilì che “ribellarsi contro il governo di Dio è come ribellarsi contro Dio”. Creò una “milizia rivoluzionaria”, i pasdaran, che avrebbe dovuto catturare gli alti dignitari del vecchio regime ma che ben presto iniziò ad arrestare indiscriminatamente i normali cittadini “per i crimini più svariati, dalla blasfemia al possesso di bevande alcoliche o di musica occidentale”.
Ma il primo provvedimento del governo ispirato ai voleri del “santo legislatore” non venne pescato casualmente: no, perché decretò l’abolizione di qualsiasi libertà, professionale, morale, comportamentale, familiare, riguardasse la condizione delle donne. Khomeini emanò l’editto infame che rese il velo obbligatorio: lo strazio che dopo alcuni decenni sarebbe costato la vita a Mahsa Amini, la prima vittima della battaglia contro il velo che ha sconvolto l’Iran teocratico. Ci furono ancora manifestazioni e sit-in di donne che protestavano con slogan che oggi quasi muovono a tenerezza per la loro commovente ingenuità di fronte all’irrompere del totalitarismo islamista: “La libertà non è né occidentale, né orientale. La libertà è globale”. Sembrò che il governo islamista stesse per tornare indietro e rinfoderare i provvedimenti più duri contro le donne, ma invece cominciò la stretta soffocante, la ghigliottina destinata ad amputare ogni diritto: “Le donne senza velo continuarono a essere aggredite dai miliziani, con l’acido, le forbici, i coltelli. La legge religiosa venne estesa a tutto il paese. Venne abbassata l’età legale del matrimonio per le donne da diciotto a nove anni” (in pratica l’autorizzazione allo stupro delle bambine consegnate dalle famiglie ai loro carnefici), “furono legalizzate la poligamia e i ‘matrimoni provvisori’” (cioè l’assoluta libertà per i maschi di disfarsi frettolosamente delle mogli e di ripudiarle), “furono rimosse le donne che facevano i giudici e fu introdotta la lapidazione per le adultere e le prostitute” (e con il nome di “prostitute” venivano vessate le donne che avevano osato camminare da sole, senza la sorveglianza occhiuta di un uomo-carceriere).
Due cugini di Azar Nafisi, Said e Fariba, in odore di dissenso, un giorno sparirono e poi si saprà che erano stati rinchiusi nella “prigione di Evin”, la stessa, potenza delle coincidenze simboliche, dove è segregata Cecilia Sala. “Venne data la caccia agli omosessuali, alle adultere, alle donne ritenute prostitute, e alle minoranze”. “Molti colleghi e amici furono giustiziati”, compresa “la mia preside, la professoressa Parsay”, una donna colta e progressista. Furono anche assassinate al termine di processi-farsa “persone comuni, solo per aver criticato Khomeini o l’Islam”. Racconta Azar Nafisi che tutto era diventato plumbeo e soffocante al punto “da farmi sentire un’estranea nelle strade della mia infanzia”. E ancora: “un altro tipo di violenza, quasi impercettibile, si insinuò nella nostra vita di tutti i giorni”. Aveva annotato in un suo diario ritrovato anni dopo insieme agli appunti per i corsi universitari su “Il grande Gatsby” o “La madre” di Gor’kij: “Non mi sentivo più a casa mia”. Era cambiato tutto, ma tutto in peggio: “L’Iran era ora la Repubblica islamica dell’Iran, le strade avevano nomi nuovi; anche la lingua suonava strana, le persone erano emissari di Dio e di Satana, le donne come me erano ‘prostitute’ o ‘agenti dell’Occidente’. Il volto della religione era cambiato, dai sereni insegnamenti di mio padre alle farneticazioni ideologiche di un gruppo di seguaci dell’ayatollah Khomeini che si chiamavano Hezbollah: il Partito di Dio”.
Poi, nel 1980, Khomeini arrivò il momento di accusare le università di essere “al servizio dell’imperialismo occidentale” o ogni barlume di libertà culturale si spense inesorabilmente. Il progetto era quello di “islamizzare” le università e i leader dei movimenti studenteschi che pure avevano inizialmente appoggiato i primi passi della rivoluzione furono “espulsi, arrestati, giustiziati anche con esecuzioni sommarie”: “Insieme a due colleghe della mia facoltà mi rifiutai di portare il velo obbligatorio, e di lì a poco venni cacciata dall’insegnamento, insieme a tanti altri docenti”. Ecco, tanti anni prima della rivoluzione di Mahsa Amini. Sua madre, parlando con un sostenitore della neo-teocrazia proruppe in un’invettiva: “Avete trasformato le università, baluardi del sapere, in luoghi di tortura!”.
L’opposizione intellettuale, tuttavia, escogitava occasioni clandestine dove ritrovarsi, parlare, discutere, consolarsi anche: “Poiché ogni aspetto della vita pubblica era stato limitato o messo al bando, il nostro spazio privato divenne una specie di tribuna pubblica. Le nostre case divennero ristoranti, bar, cinema, teatri, sale da concerto, luoghi di dibattito su letteratura, arte, politica. Certo, c’era il rischio costante di improvvise irruzioni da parte delle guardie rivoluzionarie che ci avrebbe confiscato gli alcolici, le carte da gioco, i libri e i video vietati, e ci avrebbero arrestato con l’accusa di immoralità; e tuttavia in quei giorni serpeggiava un’eccitazione trattenuta, che celava l’ansia e la paura. Mentre il paese era lacerato dalla guerra e schiacciato da leggi repressive, arresti ed esecuzioni, sotto ferveva la ribellione, la resistenza continuava”. Ma questo è l’inizio di un’altra storia: quella raccontata da “Leggere Lolita a Teheran”. Una storia da raccontare senza veli: “Io non credo che si debba rimanere zitti. Del resto, non restiamo mai davvero zitti, perché in un modo o nell’altro ci raccontiamo attraverso le persone che diventiamo”.