La dottrina Biden sugli ostaggi
Il presidente uscente ha sempre dato priorità alla diplomazia a favore “detenuti ingiustamente”, lavorando lungo alla liberazione di tutti gli ostaggi
All’inizio di agosto l’Amministrazione Biden ha concluso con successo una delle operazioni diplomatiche più significative degli ultimi decenni: Washington è riuscita a ottenere la libertà di ventiquattro persone considerate detenute ingiustamente dalla Russia, in uno scambio di prigionieri che non ha riguardato soltanto cittadini americani. Il perché lo ha spiegato lo stesso Biden, che all’epoca si era da poco ritirato dalla corsa alla Casa Bianca: “Siamo per la libertà e per la giustizia, non solo per il nostro popolo ma anche per gli altri”.
Ed è per questo, ha detto Biden in quel celebre discorso, “che tutti gli americani possono essere orgogliosi di ciò che abbiamo raggiunto oggi”. Quello scambio di prigionieri con la Russia di Putin, oltre a tre cittadini americani – fra cui il giornalista del Wall Street Journal Evan Gershkovich – includeva anche quattro cittadini russi prigionieri politici e difensori dei diritti umani, tre cittadini russi che avevano legami con il più importante degli oppositori politici di Putin, Aleksei Navalny, e poi alcuni cittadini tedeschi o con doppio passaporto tedesco e russo. In cambio, l’America aveva liberato Vladislav Klyushin e Roman Seleznev, due hacker russi, e Vadim Konoshchenok, accusato di spionaggio. Ma gli altri cinque connazionali che Putin voleva indietro erano stati arrestati, detenuti o erano sotto processo in altri paesi come Germania, Polonia, Slovenia e Norvegia – in condizioni di detenzione e con le garanzie di un giusto processo di gran lunga migliori di chi in quel momento si trovava nelle carceri russe. Nelle settimane successive a quello scambio di prigionieri storico, i media americani avevano ricostruito nel dettaglio il lavoro politico e diplomatico che c’era stato dietro alla loro liberazione, i colloqui con il cancelliere tedesco Olaf Scholz e con il primo ministro polacco Donald Tusk per convincerli della bontà dell’operazione. Anche Biden lo aveva detto chiaramente: senza le alleanze, senza l’amicizia e la fiducia degli alleati, non avrebbe potuto raggiungere quel risultato diplomatico di libertà per tutte quelle persone: “Hanno fatto un passo in avanti e hanno corso un rischio per noi, e questo ha significato molto”. Un rischio nel quale Biden credeva davvero.
E infatti si è parlato molto di una caratteristica della presidenza di Joe Biden in questi anni: sin dal primo giorno una delle sue priorità è stata quella di riportare a casa gli americani tenuti in ostaggio o detenuti ingiustamente all’estero. L’ha ripetuto spesso, e l’ha sottolineato spesso chi ha lavorato con lui in questi anni. In America il detenuto ingiustamente da parte di autorità statuali o non statuali è una categoria di persone ben precisa: come cornice d’azione il dipartimento di stato usa una legge, la Robert Levinson Hostage Recovery and Hostage-Taking Accountability Act. Come caso per caso, i funzionari dell’Amministrazione valutano possibili illeciti nell’eventualità dell’arresto di un cittadino americano fuori dai confini nazionali, e ha degli strumenti per negoziare (un inviato speciale) o reagire (anche sanzioni specifiche). La legge è stata introdotta nel 2020 per rafforzare il potere del governo federale in caso di “ingiusta detenzione” e “diplomazia degli ostaggi”, e porta il nome dell’ex agente dell’Fbi Robert Levinson, tenuto prigioniero dal 2007 in Iran, anche se le autorità di Teheran non hanno mai confermato il suo arresto. Nell’occasione dello scambio di prigionieri di agosto con la Russia, il presidente eletto Donald Trump aveva scritto che “stanno facendo un’estorsione agli Stati Uniti d’America. La chiamano una situazione ‘complessa’ così che nessuno possa capire quanto sia grave!”, criticando il deal ottenuto da Biden e in generale la supposta “debolezza” mostrata negli scambi di questo tipo. Ma Trump è un securitario, ed è un uomo d’affari. Biden al contrario ha sempre dato priorità alla libertà e alla necessità di costruire un rapporto di fiducia con gli alleati.