Colazione da Trump per parlare dell'America che verrà
Natale nella sua torre di New York. Ma Donald non abita più qui. Il nuovo presidente visto dalla Grande Mela che lo ha snobbato ancora nelle urne. I malumori della finanza, la stampa avversa e le istituzioni culturali
“Papà, voglio una foto con il presidente”, il bambino scioglie la sua mano da quella del padre e salta nel gruppetto di ragazzini che si è rapidamente formato. Il presidente arriva, arcigno e massiccio, con la mascella prominente, le sue pose iconiche e una faccia di gomma. Sì, proprio. Non è un epiteto. L’omone che esce dalla porta a vetri indossa una maschera con le fattezze di Donald Trump e si presta agli obiettivi dei telefonini. Nemmeno fosse uno dei finti gladiatori che arpionano i turisti attorno al Colosseo. E’ una piccola schiera quella che giovedì 26 dicembre, Santo Stefano, all’ora di pranzo, si raccoglie davanti al mausoleo al 725 della Quinta strada, l’elegante e sontuosa Trump tower. Un gruppo di curiosi, forse di aficionados, per una esibizione francamente patetica che fa cadere anche il settimo velo del buon gusto. A fianco, al numero 727, incollate alle vetrine di Tiffany coppie in amore o in lista di nozze. A pochi metri dalla torre, verso sud, davanti al nuovo negozio Skims Body di Kim Kardashian, la fila è così lunga da essere regolata con le transenne. Trump l’ha cavalcata con abilità e determinazione, ma la società dello spettacolo si è rivelata più bizzarra e complicata. Il culto di Kim attira le folle più del culto di Donald? Un tempo la maschera di gomma di Richard Nixon veniva esibita dagli oppositori, quelli che volevano la sua testa, oggi è un cimelio trionfale. C’è aria di festa a New York City, anche se il gran numero di poliziotti nei luoghi di culto della Grande Mela fa capire che quella gaia atmosfera potrebbe essere turbata da un momento all’altro. Per fortuna la vetrina dell’America è stata risparmiata, la strage di Capodanno è avvenuta molto lontano, a New Orleans, mentre nella Times Square infreddolita giravano baci e bottiglie di prosecco.
Il vero Trump non abita più qui. Due anni dopo il primo mandato da presidente, ha lasciato il nido nel quale si era appollaiato nel 1983, il triplice attico dagli arredamenti dorati ai piani 56, 57 e 58, in stile Luigi XIV, sì, proprio il re Sole. Nel settembre 2019 ha traslocato a Mar-a-Lago in quel di Miami. Il governatore Andrew Cuomo gli aveva augurato “buon viaggio” con un acido tweet: “Tanto da noi non è che abbia mai pagato le tasse”. Tuttavia l’obelisco del successo, la torre di vetro e acciaio eretta dal rampante “palazzinaro” nel cuore della Manhattan che lo ha snobbato, ora è stata addobbata per un culto della personalità American style. Ci sono le magliette a 40 dollari, gli zainetti a 45, chincaglierie varie, ma pochi si fermano e nessuno compra. Troneggia nel Trump bar una grande foto in posa imperiale: qualche selfie e via. La scala mobile dorata scorre dal Trump grill nel seminterrato al ristorantino italiano al primo piano, dove un panino con la mortadella costa 20 dollari. E’ forte la tentazione di passare un Natale in casa Trumpiello. Anche il presidente potrebbe dire che non gli piace più il presepe che aveva messo su a Manhattan, oggi preferisce il campo da golf nella città dei pensionati di lusso e l’edificio che il magnate ha voluto, fortemente voluto come simbolo del suo successo, della sua conquista, della sua rivincita, appare un ricordo che tristemente quanto inutilmente si vuole riverniciare con i colori del nuovo potere, quello politico.
La torre dei desideri
Ha superato la mezz’età (è stata inaugurata 42 anni fa) e pochi altri palazzi da allora hanno destato altrettanta ammirazione. La Trump Organization possiede ben 57 grattacieli tra Stati Uniti, Canada, Brasile, Panama, India, ma nessuno può tener testa a quello al numero 725 della Fifth Avenue. Ci hanno abitato uomini d’affari e dello spettacolo (Bruce Willis, Janet Jackson, Ronaldo) ci vivono anche italiani, George Guido Lombardi imprenditore immobiliare consulente di Trump nel primo mandato e Francesco Costa, presidente dell’agenzia Spring Studios (immagine, pubblicità, moda, video) il quale ha raccontato al Corriere della Sera che gli impiegati della torre sono tutti immigrati; per la maggior parte gli appartamenti sono seconde case; l’elezione di Trump ha reso la vita più difficile, non solo perché il valore degli immobili è sceso del 20-25 per cento (il prezzo medio è stimato in cinque milioni di dollari), ma anche per le scocciature che ne sono derivate, come i controlli all’ingresso e le pretese della first lady Melania la quale quando arriva vuole corridoi e ascensori totalmente liberi.
Trump ha vinto contro New York, è vero che ha aumentato i suoi consensi, ma resta pur sempre in netta minoranza. Nello stato ha avuto il 43,6 per cento, in città il 30, anche se Kamala Harris ha fatto meno bene di Joe Biden che nel 2020 ottenne il 76 per cento. La parte sud di Brooklyn resta solidamente repubblicana, macchie rosse appaiono nelle mappe a Queens e Long Island, il resto è tutto blu democratico. New York per il momento sembra non preoccuparsi troppo di quel che accadrà tra poche settimane quando una volta giurato sulla costituzione che vuole di fatto rovesciare come un guanto (se darà retta a Elon Musk, ma gli darà davvero retta?) il presidente in carica annuncerà davanti a Capitol Hill, assaltata e devastata quattro anni fa dai suoi seguaci, che cosa farà per l’America e contro tutti gli altri: cinesi, europei, russi (forse), ucraini (quasi certamente). Trump potrebbe godersi la sua rivincita partendo da Miami, la città più lontana da New York (e non solo geograficamente), riempiendo così i taccuini di ogni analista freudiano. Eppure The Donald non sembra soddisfatto, la sua città odiatamata sembra ignorarlo.
Le auto di Manhattan
Che cosa hanno da temere i newyorchesi dal secondo mandato del loro ex concittadino? Il blocco delle auto cinesi? Nel mio percorso in taxi dall’aeroporto JFK a Manhattan, mi sono divertito come un attempato bambino a guardare dal finestrino le auto che ci passavano accanto. Toyota, Honda, Nissan, Mitsubishi, Hyundai e poi ancora Toyota in ogni salsa e dimensione (molto amata la Sienna), Honda, Kia, toh ecco un paio di Bmw e una Mercedes e anche tre Tesla, più un Cybertruck. Ma le altre americane? E le cinesi? Ce ne sono, anche se non le ho viste. Un giochino il mio senza alcuna velleità ermeneutica. Un giochino che a New York non conta granché. Nonostante la gigantesca metropoli sia soffocata dai fumi di scarico, i newyorchesi hanno meno auto di tutti gli americani: a Manhattan solo una famiglia su quattro. Il traffico è sempre caotico e rumoroso perché in ogni caso entra in città ogni giorno circa un milione di veicoli che si muovono a una velocità media di dieci chilometri l’ora. I residenti possiedono nell’insieme due milioni di auto, se tutti dovessero guidare sarebbe un ingorgo continuo.
La Tesla l’anno scorso ha venduto 33 mila auto, dieci volte meno che in California. Le elettriche di Musk restano una infima minoranza nell’insieme. Nel 2024 c’erano 5 milioni di Tesla in giro per il mondo per lo più occidentale e ne vende 400 mila ogni trimestre, tuttavia fin dallo scorso anno le vetture tutte elettriche battono la fiacca. Erano 17 milioni, circa il 21 per cento del mercato, ma il ritmo di crescita si è ridotto. Nell’insieme degli Stati Uniti tre quarti delle vetture circolanti sono made in USA alimentate per lo più a benzina che costa appena 70 centesimi al litro anche se tutti si lamentano per il caro prezzi. Dal 2018 la vendita di vetture a combustione è scesa da 83 a 62 milioni di esemplari. Trump ha annunciato che produrrà delle ibride. L’inizio di un cambio di marcia, ma oggi tutti vanno sull’ ibrido, perché mai preferire la Tesla alla Toyota che vanta un’esperienza di ben 27 anni? Un Cybertruck è esploso a Las Vegas in un parcheggio davanti a un hotel Trump e tutti hanno pensato a un attentato quanto mai significativo. Joe Biden ha detto che indagherà. Il veicolo era stato noleggiato e sembra che stesse trasportando fuochi d’artificio. Las Vegas come Fuorigrotta? Anche capodanno in casa Trumpiello?
I malumori di Wall Street
E il cuore pulsante di New York, la cornucopia dell’America e del capitalismo mondiale, in altre parole Wall Street, ha qualcosa da temere con la presidenza Trump? Con Biden ha corso a più non posso. Il 2022-2024 è stato il miglior biennio dal 1997-98. L’indice più ampio, lo Standard & Poor’s 500 è salito del 54 per cento, mettendo a segno ben 57 record uno dopo l’altro. L’economia resta forte e cresce molto più di quella europea e anche di quella cinese. La borsa ha creato molti milionari, ma non si tratta solo dei soliti pochi ricconi. Fidelity investment ha calcolato che nel secondo trimestre dello scorso anno il numero di fondi pensione superiori a un milione di euro è arrivato a oltre mezzo milione, un aumento del 31 per cento. Gli altri soggetti finanziari che investono i risparmi popolari non hanno fatto peggio. JP Morgan stima che le azioni rappresentano il 42 per cento delle attività finanziarie, un record assoluto dal 1952. L’oro ha il prezzo migliore dal 2010, il bitcoin è più che raddoppiato raggiungendo per la prima volta i 100 mila dollari. Mentre tutti si lamentano per i rincari delle uova, del pane, della benzina, ebbene proprio la borsa offre uno specchio meno deformato dell’effettiva ricchezza dell’americano medio, un barometro che ha segnato in questi anni il bel tempo. Quello americano è un capitalismo di massa, ora che la campagna elettorale è finita, si può dire che Trump ha vinto agitando spettri di una povertà crescente del tutto infondati se non nell’immaginario collettivo. Certo ci sono le grandi differenze e le iniquità ben note e denunciate, ma la proletarizzazione della classe media è quanto meno prematura e le spiegazioni economicistiche della vittoria di Trump sono superficiali. Tuttavia, il 2025 richiede cautela. E Wall Street guarda alla Federal Reserve più che alla Casa Bianca.
I tassi d’interesse restano ancora alti e la banca centrale dubita di poterli abbassare perché le spinte inflazionistiche sembrano ormai incistate nell’economia. Salari, spesa pubblica, prezzi, azioni, tutto sale. Se è vero che la Bidenomics ha contribuito, soprattutto attraverso il bilancio federale, le politiche di Trump potrebbero peggiorare la situazione con le tariffe che alzano i prezzi dei beni importati (si pensi al caffè che dopo il petrolio è il principale punto di riferimento sui mercati delle materie prime), mentre la riduzione delle tasse, se davvero realizzata, aumenta il deficit pubblico, senza calcolare l’impatto negativo sul mercato del lavoro della stretta sull’immigrazione. Insomma tre pilastri della campagna trumpiana suscitano apprensione anche a chi nella grande finanza lo ha sostenuto. Non solo: il rally borsistico ha reso molto costose le azioni e questo può scoraggiare chi vuole comprare. Inoltre il 53 per cento dei guadagni di borsa dipende dai “magnifici sette”: Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia che da sola ha fatto il 21 per cento, Tesla. Quanto potrà durare una corsa che assomiglia sempre più alla bolla high tech degli anni 90, sgonfiatasi all’improvviso con l’arrivo del nuovo secolo? I grandi fondi di investimento, i re di denari, i veri boss di Wall Street che hanno alimentato il boom cominciano a cambiare le loro strategie. Più cauti sugli investimenti ecologici e sulle stesse rinnovabili, scettici sulle auto elettriche, sono alla ricerca di nuovi motori della crescita e cominciano a temere di restare intrappolati in una nuova economia del Voodoo come gli avversari avevano chiamato la politica economica di Ronald Reagan. Con una differenza: The Donald non è Ronnie e alla Federal Reserve non c’è né Paul Volcker né Alan Greenspan. Chissà cosa direbbe Milton Friedman sentendo ripetere che un superdollaro è la ricetta per rilanciare la produzione?
BlackRock, i grandi fondi e Wall Street si stanno stufando delle minchiate di Musk e non lo nascondono più. I repubblicani al Congresso hanno fatto passare il rinvio del tetto all’indebitamento fino a marzo, quando sarà presentato il prossimo bilancio federale, mentre Elon spingeva per uno shutdown che avrebbe bloccato gli stipendi alla pubblica amministrazione e le erogazioni dello stato sociale, scaricando la colpa sull’uscente Biden. Steve Bannon si è scatenato contro Musk accusandolo di vivere di sussidi governativi e andare a letto con il nemico perché metà del bilancio della Tesla è frutto dei favori cinesi. L’ala dura e pura di America First si lamenta perché Musk è sudafricano, Peter Teller, l’ideologo che ha sostenuto Vance, è tedesco, mentre è stato scelto un indiano, Sriram Krishnan come consigliere per l’intelligenza artificiale. Jeff Bezos che ha in qualche modo silenziato il suo anti-trumpiano Washington Post fa fuoco e fiamme per avere gli stessi sostegni nella corsa allo spazio di Musk al quale i servizi segreti hanno negato l’accesso ai segreti di stato per la sua dipendenza dalle droghe e i suoi legami con Vladimir Putin. Insomma, più giorni passano più emergono le contraddizioni in seno al caravanserraglio trumpiano. E chi si sta distinguendo nel metterle in luce è quello che può essere definito come l’organo dell’opposizione interna.
Il giornale della fronda
Il Wall Street Journal, controllato da Rupert Murdoch, da sempre conservatore, sta attaccando Trump sul suo stesso terreno, smontando una dopo l’altra le sparate elettoralistiche. Tagli al budget, tasse, tariffe, auto, immigrati, Panama, Groenlandia, non gliene perdona una e contesta fatti e dati alla mano sia le uscite populiste del presidente eletto sia quelle del suo pupillo Musk. E’ utile seguire passo dopo passo il duello mediatico che si svolge ormai ogni giorno. Prendiamo una delle promesse di Trump: gli anziani non dovrebbero pagare la social security. Molto popolare ispirata a un criterio di giustizia distributiva. Per legge i redditi della sicurezza sociale fanno parte del Social Security Trust Fund. Mentre le tasse sui guadagni dei più ricchi entrano nel fondo assicurativo sulla salute. L’idea trumpiana farebbe mancare in dieci anni fino a milleottocento miliardi di dollari secondo i conti del Comitato per un responsabile bilancio federale. La sicurezza sociale diventerebbe insolvente nel 2032, scrive il Wall Street Journal, il fondo della salute persino un anno prima. Un’altra promessa “coraggiosa”, cioè tagliare a metà i costi dell’elettricità entro 18 mesi (sembra che proprio questa abbia spinto ben nove milioni di votanti verso Trump) è contraddetta dalla politica energetica. “Drill baby drill”, ha detto il presidente, ma il petrolio americano è conveniente per le imprese solo a prezzi più alti di quelli medi attuali. Non solo. Il Texas, primo produttore Usa con il 43 per cento del petrolio e il 27 per cento del gas, ha superato la California per energia elettrica dall’eolico, mentre il fotovoltaico ha sorpassato il carbone. Togliere i sostegni alle energie rinnovabili sarebbe un boomerang. Lo stesso vale per l’auto. E ancora: bloccare l’immigrazione sembra popolare tra gli elettori di destra, ma fa del male all’economia. L’industria delle costruzioni impiega un milione e mezzo di immigrati più o meno legali, se venissero deportati crollerebbe. Buona parte del boom economico di Biden è dovuto alla forza lavoro immigrata che ha colmato il vuoto di quella americana in riduzione, proprio come accade anche in Europa. Ma forse la contraddizione più costosa politicamente è quella che riguarda il Department of Government Efficiency.
Il Doge del debito
Tagliare il deficit è facile, solo che è impopolare, ha scritto Greg Ip, commentatore capo, sul solito Wall Street Journal. Per decenni commissioni, think tank, uffici federali hanno prodotto montagne di piani per tagliare la spesa pubblica, ci ha provato anche Ronald Reagan, ma persino lui non ci è riuscito. Il deficit federale ha raggiunto un record assoluto in anni non segnati da guerre, recessioni o emergenze: mille ottocento miliardi di dollari pari al 6,4 per cento del pil. Una strada più modesta, ma certa, sarebbe non peggiorare la situazione. Invece Musk, che deve co-guidare il Doge, acronimo del nuovo dipartimento, si è espresso a favore di più soldi per le vittime di disastri e per gli agricoltori, nemmeno fosse Lollobrigida. Il vicepresidente eletto JD Vance, paladino dello stato minimo, ha sponsorizzato una espansione dello stato sociale. L’idea di fondo sarebbe decurtare per almeno duemila miliardi di dollari le spese federali che ammontano a seimila 750 milioni, licenziando i dipendenti pubblici, chiudendo o fondendo le diverse agenzie e riducendo la regolamentazione. Il Wall Street Journal fa un po’ di conti in tasca. Gli stipendi pubblici costano 250 miliardi di euro l’anno, più del 60 per cento va ai militari o a chi lavora in organizzazioni che si occupano di sicurezza, sarebbe davvero poco comprensibile tagliarli. Gran parte degli altri dipendenti federali lavora per l’Internal revenue service, in sostanza il fisco. Come ridurli senza ridurre la raccolta delle imposte?
Le spese si dividono in tre categorie: gli interessi sul debito (882 miliardi di dollari l’anno) e qui non c’è molto da fare se non abbassare i tassi e sperare sul mercato; la seconda voce importante è la spesa discrezionale autorizzata dal Congresso, molta parte va a strutture come i parchi nazionali o il servizio meteorologico importantissimo in un continente come quello americano; la terza fetta riguarda le spese obbligatorie, non solo difesa e sicurezza, ma servizi sociali, sanità, sussidi vari, credito fiscale per i bambini, pensioni ai veterani e quant’altro. Si tratta di oltre quattromila miliardi, il doppio delle spese discrezionali. Tagli si possono fare, ma tutto sommato marginali. E spendere in modo più efficiente privatizzando tutto quel che è possibile? Forse, scrive il Wall Street Journal, ma non nasconde il proprio scetticismo e fa l’esempio del Medicare: la spesa diretta è pari all’un per cento del totale rispetto al 12 per cento delle assicurazioni private. Insomma, è sempre la stessa storia, i populisti promettono quel che l’opinione comune si aspetta, ma che nessuno è in grado di realizzare.
Pluralismo o egemonia
E che cosa hanno da temere dalla presidenza Trump le istituzioni culturali che sono l’altro pilastro di New York? I Maga imporranno un musical western alla Carnegie Hall? Trump vorrà una mostra al Moma sulle meraviglie dei suoi casinò? Il Whitney museum dedicato all’arte americana dovrà organizzare esposizioni su Buffalo Bill e Toro Seduto che torna ad essere chiamato pellerossa? Sono andato al museo che dal 2015 s’affaccia sul fiume Hudson e su Jersey City, nel nuovo edificio progettato da Renzo Piano. A parte la collezione permanente e altre esposizioni non di punta, spicca la mostra dedicata a Alvin Ailey e alla cultura nera. Alley è stato il più grande ballerino e coreografo della danza moderna negli Stati Uniti. Nacque in Texas nel 1931 dalla madre diciassettenne Lula Cooper, il padre scomparve quando aveva un anno. Lula lavorava nei campi di cotone e come domestica nelle case dei bianchi. Venne stuprata da quattro uomini tra i quali il suo datore di lavoro, Alvin non ha mai dimenticato il trauma.
Lula e suo figlio cominciarono a peregrinare di città in città alla ricerca di un lavoro finché nel 1941 a Los Angeles la loro vita cominciò a cambiare. Alvin frequentò regolarmente la scuola e con successo, scoprì il suo talento per la musica e venne a contatto con la danza quando, ancora studente delle scuole medie, andò in gita ad assistere a uno spettacolo del Ballet Russe de Monte Carlo. Scoprì presto anche la letteratura europea (Garcia Lorca), l’arte figurativa (Paul Klee) e la sua omosessualità che cercò a lungo di nascondere al punto che quando morì di Aids nel 1989 volle che il medico dichiarasse che era deceduto per una generica malattia del sangue. L’Alvin Ailey American Dance Theater ha sviluppato coreografie e spettacoli originali. Il più famoso è Revelations capolavoro della danza moderna, filo conduttore della mostra al Whitney, l’ultima impresa di Adam Weinberg che ha guidato dal 2003 al 2023 l’istituzione culturale privata con indipendenza, apertura al confronto, anche alle controversie accolte con spirito pluralista, respingendo le insidie di chi di volta ha voluto riscrivere la storia a propria immagine e somiglianza. Nel 2017 quando venne proclamato lo sciopero della cultura contro Donald Trump, Weinberg rispose non chiudendo il museo, ma aprendolo ancor più, anche concretamente: niente biglietti fissi, solo donazioni, ingresso gratis a chi non era in grado di pagare. Il Whitney vive con i contributi che affluiscono alla fondazione oltre agli introiti degli spettatori che sono triplicati. Una volta scelto e insediato, il direttore ha una grande autonomia, ciò non toglie che esistano discussioni, confronti aperti, contrasti. Al posto di Weinberg è stato scelto il vice Scott Rothkopf, texano laureato a Harvard, studioso di arte contemporanea, nulla fa pensare che non seguirà la stessa strada.
Panama e TikTok
Nel presepe di regime il presidente eletto ha in testa una berretta di Santa Claus, ma lui, invece degli auguri, ha mandato un bel va all’inferno a tutti quelli che gli stanno sulle scatole. Fino a poco tempo fa voleva bandire TikTok perché cinese, adesso lo vuole proteggere perché “ho avuto miliardi di visualizzazioni”, ha gioito. In casa Trumpiello c’è la statuina di Justin Trudeau trafitta al cuore da uno spillone: troppo bello, troppo liberal e poi aveva persino fatto gli occhi dolci a Melania o forse l’occhiata assassina era partita dalla stessa first lady. Trump vuole che perda le prossime elezioni canadesi, intanto ha pensato di prendere il controllo della Groenlandia. Cosa gli avrà mai fatto la Danimarca? La pazza idea forse meno pazza delle altre è la campagna di Panama. Restituito da Jimmy Carter appena spentosi centenario, adesso Trump vuole indietro il canale. “La nostra marina è stata trattata in modo iniquo – ha tuonato – Chiederemo che il canale sia restituito in pieno, rapidamente e senza questione”. Il presidente di Panama José Raúl Mulino, ha replicato: manco per sogno. Allora cosa resta, l’invasione? Il Wall Street Journal spiega che Trump ha torto. Ogni nave, a prescindere dalla sua bandiera, paga la stessa tariffa in rapporto al tonnellaggio e al tipo. Il 75 per cento è il pedaggio, il resto va ai servizi di scorta e i rimorchiatori. The Donald si dice allarmato dalla crescente influenza cinese. Due banchine per i cargo nel canale sono gestite da una concessione a Hutchison Whampoa la società di Hong Kong, un attracco è statunitense, uno di Singapore e uno di Taiwan. Finora Pechino si è avvicinata, ma non è sbarcata direttamente.
“Trump, un populista, ha costruito la sua piattaforma evitando scelte impopolari – scrive Greg Ip sul Wall Street Journal – Se dovesse tenere fede alle sue stesse promesse dovrebbe fare invece scelte impopolari” e dannose. Nel 1888, Lord Bryce ambasciatore britannico a Washington, politico e giurista al quale si deve la distinzione tra costituzione rigida e flessibile, scrisse che “le istituzioni americane rappresentano un esperimento nel governo della moltitudine al cui risultato dovrebbero guardare tutti”. Le cose erano cambiate molto da quando 50 anni prima Alexis de Tocqueville aveva scritto la sua “Democrazia in America”. La guerra civile aveva trasformato il paese cambiando alcuni pilastri della costituzione materiale (a cominciare dalla schiavitù). Tuttavia quella carta presentata nel 1787 alla convenzione di Filadelfia, aveva retto grazie, secondo Lord Bryce, a “politici probabilmente di media intelligenza e forse minor virtù, i quali tuttavia avevano dimostrato un certo genio naturale per il compromesso evitando che l’intera sovrastruttura piombasse sulla loro testa”. E’ stato così anche nel secolo americano, dopo la grande depressione degli anni 30, il secondo conflitto mondiale, la guerra fredda, l’attacco del terrorismo islamico dell’11 settembre 2011. Quel “genio naturale” reggerà ancora?
L'editoriale dell'elefantino
Con gli iraniani, contro Israele: Francesco oltre tutte le linee rosse
Il foglio tradotto