il conflitto
La resistenza contro i militari in Birmania continua a conquistare chilometri. La repressione è spietata
Il regime militare del Tatmadaw perde città importanti, ma risponde alle perdite e alle minacce con la violenza e con attacchi aerei quotidiani su interi villaggi, scuole, ospedali, chiese e monasteri
Un soldato della resistenza birmana, subito dopo aver conquistato una città a sud dello stato Chin due settimane fa, che fino a quel momento sotto il controllo dell’esercito militare del Tatmadaw, si fa filmare mentre stacca il ritratto Min Aung Hlaing dalla parete di un palazzo governativo, lo getta a terra e con un gesto simbolico calpesta più volte la testa del leader della giunta che da quasi quattro anni strazia il popolo del Myanmar con attacchi aerei, arresti arbitrari, torture ed esecuzioni sommarie. Il video riporta subito alla mente le immagini molto simili del popolo siriano che calpesta, strappa e incendia i ritratti del dittatore Bashar-el-Assad subito dopo la caduta del regime. La resistenza birmana, che da anni conquista sempre più territorio e indebolisce la dittatura militare, in quelle immagini dei siriani che entrano nelle città liberate non solo si è riconosciuta ma si è fatta forza e speranza: i prossimi possiamo essere noi.
La città conquistata nel video è la città di Mindat, ma è solo una delle tante conquistate dai gruppi etnici armati nelle ultime settimane: da giorni sono quotidiane le notizie della caduta di alcune basi della giunta militare birmana in città importanti negli stati di Rakhine e Chin, molte di queste abbandonate dall’esercito senza neanche combattere. Da quando è iniziata l’offensiva – il nome in codice è Operazione 1027, dal giorno in cui è stata lanciata, il 27 ottobre 2023, dalla Three Brotherhood Alliance, l’alleanza di tre organizzazioni etniche armate del Myanmar – la giunta ha perso il controllo di gran parte del territorio e di ormai tutti i suoi confini. Secondo un’indagine della Bbc, avrebbe il pieno controllo di meno di un quarto del territorio del paese, meno di quanto abbia mai avuto dal 1962. Su tutti i confini birmani, con India, Cina, Bangladesh e Thailandia, le milizie etniche armate negli stati di Chin, Kachin, Shan, Karen e Rakhine hanno conquistato ogni centro di comando, mentre il regime è ancora saldo nelle zona centrale del paese e nelle città principali di Naypyidaw, Yangon e Mandalay.
L’ultimo confine a essere stato liberato dall’Arakan Army (che fa parte della Three Brotherhood Alliance) è stato quello con il Bangladesh, tre settimane fa, quando Min Aung Hlaing ha per la prima volta perso il controllo di un intero confine, 270 chilometri di territorio nella battaglia più sanguinosa dal colpo di stato del primo febbraio 2021. Ed è sempre la milizia etnica di Arakan ad aver conquistato quindici giorni fa, dopo oltre due mesi di combattimenti, il quartier generale del regime nella città di Ann, nello stato di Rakhine: è la seconda roccaforte delle 14 della giunta a cadere dopo quella di Lashio lo scorso agosto.
Appena una base militare, una città o un paese viene conquistato le milizie etniche posano sempre in fila come da manuale, sventolano la bandiera del gruppo di fronte a un edificio simbolo del luogo a testimonianza che anche lì il nemico è stato cacciato, di fronte sfoggia anche l’arsenale sequestrato per mostrare ai cittadini che non verrà più usato contro di loro. La popolazione invece esulta, spesso nei video si vede accogliere i gruppi etnici che entrano nelle città dopo averle liberate con feste e grida: “Che Dio vi benedica”, come dopo la liberazione quest’estate della città di Mogok, chiamata la “città dei rubini”, o balli che diventano virali come quello della scorsa settimana dopo la liberazione di Mindat: “Ce l’abbiamo fatta ragazzi! Abbiamo liberato Mindat. E ora che facciamo? Balliamo!”.
Ma più la resistenza si fa efficace, più la giunta, che continua ad avere il controllo del centro nevralgico del paese, si fa brutale: il regime del Tatmadaw risponde alle perdite e alle minacce con la violenza, con attacchi aerei quotidiani su interi villaggi, scuole, ospedali, chiese e monasteri. Nonostante l’attenzione internazionale sulla guerra civile in Myanmar sia quasi inesistente, i massicci bombardamenti sulla popolazione birmana sono quotidiani e non si sono fermati neanche il giorno di Natale: nello stato di Kayah, i cristiani Karenni per ripararsi dalle bombe del regime hanno festeggiato la vigilia in una grotta. In violazione delle norme internazionali, fa uso spropositato di mine antiuomo per fiaccare le milizie e la popolazione: il Myanmar è il paese con il maggior numero di vittime delle mine a livello mondiale, il primo paese per criminalità organizzata secondo il Global organized crime index, conta oltre 50 mila morti, 20 mila prigionieri politici e tre milioni di profughi interni e migliaia di sfollati nelle foreste o sulle montagne.
Nonostante la brutalità e il continuo sostegno militare di Cina, Russia e Iran, esperti e analisti affermano che la giunta non è mai stata così debole. Sempre secondo un’indagine della Bbc della scorsa settimana, il Tatmadaw sarebbe ormai sull’orlo del collasso, pieno di spie che lavorano segretamente per i ribelli pro democrazia – le chiamano “angurie”, verdi all’esterno, rosse e ribelli al cuore. E’ così che chi sceglie di non disertare (anche il numero di diserzioni è altissimo) decide di servire la “rivoluzione”: “Ho visto i corpi dei civili torturati. Ho pianto. Come possono essere così crudeli contro la nostra gente? Dovremmo proteggere i civili, ma ora stiamo uccidendo persone. Non è più un esercito, è una forza che terrorizza”, ha detto un soldato dell’unità alla Bbc.
Non è più questione di se ma di quando crollerà il regime birmano, accerchiato ai confini, alle prese con un’economia al collasso e totalmente dipendente dalla Cina. La resistenza, le forze pro democrazia e il governo ombra (Nug) continuano a tenere accesa la luce sul paese sotto la frase “What’s happening in Myanmar”, chiedono di sostenere la resistenza e non credere alle elezioni farsa indette nel 2025. Alla notizia della conquista di 93 città quest’anno da parte dei ribelli birmani, un attivista ha commentato sui social: “Se abbiamo raggiunto questo risultato senza sostegno internazionale, pensate a cosa potremmo fare se lo avessimo”.
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