Il racconto
Noi, giornalisti a Teheran
Il ricordo della Rivoluzione, delle pallottole che fischiano, degli interpreti e dei colleghi imprigionati. Erano giochi di potere allora, sono giochi di potere oggi. E ossessione per le spie. La leggenda nera di Evin, dov’è rinchiusa Cecilia Sala
Fa venire i brividi a pensarci dopo. Ma ha un suo fascino musicale il suono dei proiettili che ti fischiano nelle orecchie. Zzzing, ziing, zing. Una vibrazione metallica, come un corda di contrabbasso pizzicata molto violentemente.
In Iran, capitò che mi sparassero. Ma non fui mai arrestato. Malgrado fossi ebreo. Malgrado fossi comunista. Malgrado fossi giornalista. Malgrado ne scrivessi di tutti i colori sul regime di prima, e anche sul regime di dopo. Ho invece conosciuto molti che, col regime di prima, e poi col regime di dopo, finirono nel carcere di Evin. Parecchi non ne uscirono vivi. Spietati con i connazionali, o con chi aveva doppia nazionalità, erano prudenti con gli stranieri. Specie con i giornalisti.
In Cina, gli stranieri in generale, e i giornalisti in particolare, erano controllati a vista. Talmente controllati che accusarli di aver commesso qualche misfatto sarebbe equivalso, per le autorità preposte, ad autoaccusarsi. Ragione per cui gli arresti erano rarissimi. Le espulsioni, più frequenti. Per le fucilazioni, bisogna risalire ai primissimi tempi della Repubblica popolare. Non che gli importasse molto di irritare paesi e potenze con le quali comunque non avevano relazioni. Il principio era che ogni giornalista, ogni diplomatico, ogni uomo d’affari straniero si trovasse lì per spiare ai danni della Cina maoista. Troppe spie, nessuna spia. Ragione per cui le spie vere, anche quelle note e certificate, in genere le lasciavano in pace.
Sto parlando dell’Iran dei tempi dello Scià e della rivoluzione di Khomeini, di quasi cinquant’anni fa, fine anni 70. E della Cina degli anni 80. Sia Iran che Cina sono cambiati enormemente. Per certi versi sono irriconoscibili. Sospetto però che grattando sotto sotto siano un po’ uguali all’Iran e alla Cina che ho conosciuto. Identici anche i meccanismi per cui si hanno problemi con le autorità. Lo straniero è strumento di ricatto o merce di scambio. Oppure passa guai perché è finito in mezzo a una guerra tutta interna, tutta loro, a pugnali avvelenati, tra fazioni politiche, cordate nei loro servizi di sicurezza, segnali e avvertimenti in codice. Decide il caso. Come per i proiettili vaganti. Per i giornalisti c’entra poco o nulla quello che fanno o scrivono. Con la sola eccezione di quando sfrugugliano troppo nelle lotte di potere e negli scontri interni.
Quand’ero in Cina successe al mio amico Tiziano Terzani. Venne arrestato, costretto a firmare una confessione infamante, di traffico di antichità, sotto minaccia del peggio. Ventilarono l’accusa di attività controrivoluzionaria. Lui sapeva bene cosa voleva dire. I “controrivoluzionari” finivano fucilati, che fossero cinesi o stranieri, giornalisti o no. Un’altra amica della mia Cina di quegli anni, Barbara Alighiero, ha scritto un libro, L’uomo che doveva uccidere Mao, sulla vicenda di Antonio Riva, fucilato nel 1951. Non perché era italiano, non perché era stato fascista, come lo erano stati molti italiani, non perché aveva trafficato armi con Chiang Kai-shek, men che meno perché volesse attentare, su istigazione della Cia, alla vita di Mao. Semplicemente perché era finito in mezzo a una resa dei conti interna ai servizi cinesi. Ma vallo a spiegare a Tiziano, convinto che si trattasse di un fatto personale tra lui e la Cina.
Non conosco di persona Cecilia Sala. Anche se scriviamo sullo stesso giornale. La leggo. E’ molto brava. Fa giornalismo, non propaganda. Mi auguro che torni al più presto. Credo sia rimasta intrappolata in qualcosa in cui il suo lavoro da giornalista non c’entra, o c’entra poco. Nel caso dell’Iran le cose sono forse ancora più complicate che per la Cina. C’è un tratto del carattere nazionale che in farsi chiamano tarof. Non saprei come tradurre. Estrema, squisita cortesia, che però può tradursi nel suo opposto. Provo a spiegare di cosa si tratta. Il tassista ti accompagna dicendo che non vuole essere pagato. Tu insisti a pagare la corsa. Lui insiste a rifiutare. Lo scambio di cortesie va avanti per un bel pezzo. Finché tu non ne puoi più e te ne vai. Il tassista a quel punto scende e ti insegue: “Figlio di un cane, farabutto, dove credi di andare senza pagarmi?”.
In Iran c’ero capitato in fretta e furia. Per caso. Nella riunione di redazione del mattino, collegati via telefono con la redazione di Roma, avevo chiesto come mai non avevamo alcun inviato a Teheran, con tutto quello che stava lì succedendo. Il tale è malato. Il tal altro ha già avuto guai con la Savak (la temibile polizia politica dello Scià). “Se tutti hanno paura e se la fanno sotto ci vado io!”, avevo sbottatto. Alfredo Reichlin, che dirigeva l’Unità a Roma, e Claudio Petruccioli, che la dirigeva a Milano, mi dissero: “Vai!”. La segreteria mi prenotò un volo che partiva l’indomani da Roma. Passai a casa a prendere la macchina da scrivere portatile. Misi due camicie in una borsa a mano. Stando alle agenzie, l’Iran era in preda al caos, sciopero generale a oltranza, sanguinose sparatorie nelle strade, legge marziale, coprifuoco. Non avevo uno straccio di visto. Non sapevo niente di niente. Non sapevo nemmeno se mi avrebbero lasciato sbarcare dall’aereo. Nella sosta a Roma avevo incontrato un esule iraniano. Mi diede un foglietto scritto a mano con nomi di oppositori e no, di persone che avrebbero potuto aiutarmi.
I giornalisti stavano allora tutti al Park Hotel, nella parte centrale della città, che si estendeva dalle pendici della montagna innevata (dove si trovavano la Reggia, le residenze degli ambasciatori, le case dei benestanti), sino agli immensi suburbi a sud. Notai che l’aria buona è riservata ai ricchi, mentre, specie quando piove, la loro merda defluisce verso i poveracci. Non scherzo. Ci fu un’epidemia di dissenteria. Da cui non fui immune. La montagna era magnifica. Innevata d’inverno. Verde, ma talvolta abbellita da una punta di neve, anche nelle altre stagioni. Ora fa schifo anche lei. E’ stata deturpata, cementificata da una immane foresta di grattacieli, residenze per la nomenklatura e i pasdaran, i pretoriani e gli altri beneficati dal regime. Il Park Hotel divenne poi ricovero per i mutilati nella guerra contro l’Iraq. Non so neanche se l’edificio esista ancora. Era a due passi da dove all’angolo si vendeva di contrabbando il caviale fresco, quello con chicchi dorati ed enormi. Non esiste più. Il Caspio e gli storioni giganti sono da tempo morti per l’inquinamento.
Ogni mattina si usciva per andare a raccogliere notizie nelle sette chiese dell’opposizione. Capitava di trovarsi in mezzo a scontri e sparatorie. Poi si doveva per forza rientrare in albergo a trasmettere il pezzo. Era la cosa più difficile e stressante. Le attese della linea erano interminabili, stressanti. Capitava di attendere anche ore prima di poter comunicare con il giornale. Non c’erano cellulari, tanto meno satellitari. Era sorta complicità tra me e la centralinista, una giovanissima armena, molto carina. Mi concedeva la linea prima che agli altri. Non vi racconterò di tutte le volte che ci spararono addosso. Sarebbe noioso. Ne basti una. Un giorno un gruppetto di noi rimase intrappolato nella terrazza di un edificio da cui si poteva seguire il massacro nella strada di sotto. Per i “quotidianisti” si era fatto tardi. Scendemmo e ci mettemmo a correre tra i proiettili. I “settimanalisti” restarono al riparo della balaustra. Dietro, erano protetti da un muro. Un proiettile andò a schiantarsi sul muro. I frammenti rimbalzarono verso la balaustra. Colpirono il collega dell’Espresso, Giancesare Flesca.
Al suo capezzale in ospedale feci la conoscenza di una ragazza di bellezza sconvolgente. Aveva un viso di un tondo perfetto, grandi occhi verdi, dolci e scintillanti, un sorriso travolgente. Brillantissima, vivacissima, sprizzava seduzione da tutti i pori. Aveva studiato architettura a Firenze, insegnava all’Università di Teheran. Io le regalai le poesie di Catullo. Lei mi prestò La Femme de trente ans di Balzac. Capita che in mezzo alle guerre nascano storie d’amore. Tra colleghi giornalisti e non. Ce ne furono a bizzeffe già all’Hotel Florida di Madrid negli anni della guerra civil. Ricordo ancora lo sguardo carico di odio del giovanissimo e barbuto guardiano della rivoluzione all’idea che la sua “sorella” islamica frequentasse un giornalista straniero. Cercò inutilmente di convincerla ad avere un po’ più di pudore. Lei lo mandò a quel paese. Era evidente che lui bruciava dalla voglia di sparare a tutti e due. Per sposarla avrei dovuto convertirmi. Non era il caso. Non è concepibile che una donna islamica sposi un non musulmano, anche se è consentito che un musulmano abbia mogli non islamiche. Lei poi sposò Flesca e, dopo un divorzio, un altro italiano. Entrambi per portarla con sé in Italia, e consentirle di mantenere il passaporto iraniano, dovettero convertirsi all’islam.
Fu lei a farmi conoscere e farmi amare l’Iran. Mi faceva da interprete. Divenimmo inseparabili. Continuammo a frequentarci, con i rispettivi consorti, anche dopo che approdai a Roma (per me, turco milanese, un’altra capitale estera) dopo aver fatto più volte il giro del mondo. Devo a lei se da giornalista combinai qualcosa di buono in Iran. Così come devo all’altra metà del cielo se sono riuscito a capire qualcosa di Cina negli otto anni a Pechino. Lo devo alla bergamasca Stefania, che decise di seguirmi rinunciando alla sua carriera in politica. E alle molte amiche cinesi di cui ho raccontato in Colazione a Pechino.
Da anni ormai, nel giornalismo di guerra le donne surclassano gli uomini. Si suol dire che dietro un uomo di successo c’è sempre una gran donna. Spero che un giorno si dirà anche il viceversa. Per un giornalista che va in un paese che non conosce e di cui non parla la lingua, l’interprete non è solo la metà. E’ tutto. Io fui fortunato. Il mio primo interprete non era però una donna. Bagher era un discendente del Profeta. Aveva studiato in Italia. Lavorava alla tv iraniana. Siccome tutti erano in sciopero aveva molto tempo da dedicare a me. Aveva moglie spagnola, Pepa, e una figlioletta. Era moderatamente islamico. Forse un po’ troppo entusiasta della Rivoluzione. Esageratamente ingenuo.
Lo presentai a Oriana Fallaci. Bagher era innamorato dei libri della Fallaci. Fece il diavolo a quattro per farle ottenere la celebre intervista con l’ayatollah Khomeini. Lei, per tutto ringraziamento, lo fa apparire bigotto e cretino. Quando Bagher fu nominato primo ambasciatore della Repubblica islamica in Italia, lei fece campagna perché le sue credenziali fossero respinte. Gian Carlo Pajetta e Miriam Mafai, mi raccontarono di una cena al Quirinale cui era lei invitata assieme a loro da Pertini. “Ma tu cosa le hai fatto alla Fallaci?”, mi chiese Miriam, con una delle sue inconfondibili e fragorosissime risate. “Ha passato la serata a inveire contro te e contro quel tuo interprete, tacciandovi entrambi di essere fanatici islamici”. La cosa mi fa ancora ridere. Mi sono state rimproverate molte cose. Ma tacciarmi del fanatico, per giunta islamico, è la più ridicola di tutte.
Pertini, non le diede retta. Bagher si insediò come ambasciatore a Roma. Ma per poco. Un giorno sparì dall’ambasciata con moglie e figlia. Il suo referente politico, il ministro degli Esteri Sadegh Ghotbzadeh, era caduto in disgrazia agli occhi dell’ayatollah supremo. Era stato stretto collaboratore, anzi portavoce di Khomeini. Era tornato in Iran dall’esilio a Parigi sullo stesso volo Air France offerto dalla République ultra laica. Con loro viaggiavano anche due futuri presidenti della Repubblica islamica: Bani Sadr e Hashemi Rafsanjani, mollah col turbante. Entrambi furono poi fatti fuori per contrasti con l’ayatollah in capo. Sono tornati tempi convulsi di successione ai vertici dell’Iran. Attenti alle prossime puntate. Come si dice, non c’è due senza tre.
Ghotbzadeh si era più volte pronunciato, anche pubblicamente, per la liberazione immediata dei 52 diplomatici americani prigionieri nell’ambasciata a Teheran occupata dagli studenti “rivoluzionari”. Li liberarono solo oltre un anno dopo. Con sottile perfidia, non nelle mani di Carter ma in quelle del repubblicano Ronald Reagan. Molti di quei giovani islamici di allora sono oggi all’opposizione del regime. La loro impresa era riuscita nel suscitare l’esecrazione del mondo intero nei confronti della neonata repubblica islamica. Garantì un odio imperituro nell’opinione pubblica americana. Ma riuscire a far eleggere alla Casa Bianca un presidente di destra fu un capolavoro per un paese canaglia. Anche se non unico.
Prima di finire impiccato, Ghotbzadeh era stato imprigionato a Evin, lo stesso carcere in cui è detenuta Cecilia Sala. Evin è una leggenda nera. Fa venire in mente un numero infinito di racconti di torture e orrore. Stessi identici orrori da un regime all’altro. Bagher fu costretto a vivere in clandestinità, con tutta la sua famiglia, per tenersi al riparo dai sicari di Teheran, fino alla morte per Covid nel 2020. L’accusa era di aver intrattenuto contatti con la Cia, l’Internazionale socialista, Israele, il Fronte Nazionale, i Pahlavi, la deposta famiglia imperiale. Già che c’erano, avrebbero potuto citare anche i rapporti col Pci, tramite l’inviato dell’Unità. Avrebbe addirittura complottato per uccidere Khomeini.
Quante volte sono incappato in litanie simili, di accuse assurde? Nei processi degli anni 30 nella Mosca di Stalin, stando al procuratore Vishinskij, Bucharin e gli altri imputati del “Blocco dei destri e dei trotskisti” erano al soldo di Hitler e del Mikado. Non ci fu bisogno di riscontri oggettivi. La “prova” era che erano stati loro stessi a confessarlo. A tutt’oggi non è chiaro come li abbiano convinti ad autoaccusarsi di cose assurde. Idem con patate nei processi agli avversari di Mao durante la Rivoluzione culturale. Nelle spiegazioni “sussurrate” sulla fine misteriosa del maresciallo Lin Biao. E poi, pari pari, nei processi ai loro persecutori, alla vedova Mao e alla sua “Banda dei quattro”. Il canovaccio si ripete nei processi dell’era di Xi Jinping e di Putin. L’avversario politico (o meglio sarebbe dire il rivale politico) è accusato di tutte le nefandezze possibili e immaginabili. Tutte insieme. Deve essere per forza anche ladro, corrotto, blasfemo, affamatore di orfani e vedove, stupratore, pervertito, pedofilo…
E’ sempre lotta per il potere, lotta politica interna. Anche quando si presenta in altre sembianze, magari di conflitto internazionale. I giornalisti e i dissidenti “locali” sono “spendibili”. Nessuno scommetterebbe un soldo bucato sulla loro incolumità. Anche quando sono famosi, o sono stati insigniti di un premio Nobel. Talvolta la pressione dell’opinione pubblica internazionale riesce a trarli d’impiccio. A Solzhenitsyn fu consentito di emigrare negli Stati Uniti. Ma un altro Nobel, il fisico e dissidente Andrej Sakharov, fu confinato in un ospedale psichiatrico, e liberato solo dopo l’avvento della perestrojka. Ho conosciuto bene i riformatori che con Hu Yaobang si erano illusi di rendere democratica la Cina. Qualcuno riuscì a riparare in esilio in America. Ma a condizione che non facessero più politica, o non troppa politica.
L'editoriale dell'elefantino
Con gli iraniani, contro Israele: Francesco oltre tutte le linee rosse
Il foglio tradotto