Tutto è nato al luna park
Romanzo della vita di Donald Trump
Geniale e spudorato venditore di sé stesso, Donald ha fatto fortuna solo grazie alle solide imprese di papà Fred, tutte incentrate su Coney Island. Un ritratto a quattro anni dall’assalto a Capitol Hill e a due settimane dall’inizio della sua seconda presidenza
Tutta colpa di Coney Island. I grattacieli di lusso di Manhattan, i casinò di Atlantic City e i campi da golf della Florida sono venuti dopo, ed erano comunque tutte opere realizzate facendo solo debiti. Dietro l’ascesa di Donald Trump, dietro tutto il fragore mediatico che ha creato per decenni l’illusione di una storia di successo, c’erano le vecchie montagne russe arrugginite dell’antico luna park di Brooklyn, gli hot dog di Nathan’s, lo zucchero filato e la spiaggia di uno dei luoghi più popolari e a buon mercato di New York. Un’intera narrazione imprenditoriale e politica costruita sul lusso e l’esclusività nasconde da oltre cinquant’anni una realtà ben diversa: Trump è da sempre un geniale e spudorato rivenditore di sé stesso che ha fatto fortuna solo grazie alle solide imprese di papà Fred, tutte incentrate su Coney Island, messe ripetutamente a garanzia per tenere in piedi l’impero di carta e di bugie del figlio.
A quattro anni esatti dall’assalto a Capitol Hill per il quale non verrà mai processato (resterà una macchia irrisolta nella coscienza americana) e a due settimane dall’inizio della sua seconda presidenza, vale la pena ripercorrere il romanzo della vita di Donald Trump. Perché sembra ormai di conoscerlo più che bene, ma in realtà resta un mistero. E’ una storia che continua a essere una sfida alle leggi di gravità: sarebbe dovuto cadere più e più volte, e invece ha ormai definito un’intera epoca della politica americana e globale, dedicando un’esistenza a costruire – nello spirito di Coney Island – una casa degli specchi dominata dal logo “Trump”, per moltiplicare sé stesso e il suo brand personale.
E’ per questo che l’ultimo, monumentale libro-inchiesta dedicato a Trump si intitola “Lucky Loser”, perché racconta la storia del fallito più fortunato che esista nell’intero mondo occidentale. Lo hanno scritto Russ Buettner e Susanne Craig, due reporter investigativi del New York Times che hanno vinto il Pulitzer svelando la verità sulle finanze e le evasioni fiscali di Trump. E’ il racconto di quella che gli autori definiscono in copertina “la creazione dell’illusione di un successo imprenditoriale” che è mai stato tale. Va ad aggiungersi a “Confidence Man”, l’altrettanto vasta e dettagliata biografia di Trump scritta da Maggie Haberman, la cronista politica del New York Times che lo segue da decenni. Insieme, in milleduecento pagine complessive, emerge un’altra storia rispetto a quella che Trump continua a raccontare sulla sua ascesa e il suo successo. Si potrebbe aggiungere ai due libri il recente film biopic “The Apprentice” di Ali Abbasi, che rende bene le atmosfere della New York degli anni Settanta e Ottanta, ma non riesce a cogliere la realtà dietro le quinte delle operazioni finanziarie e di pubbliche relazioni di Trump.
E’ significativo che siano i giornalisti del New York Times a firmare i più importanti libri-inchiesta finora scritti su The Donald, perché in qualche modo la loro è anche un’espiazione. Leggendoli si capisce l’enorme, smisurata responsabilità che hanno proprio i giornali e i network tv basati a New York nell’aver contribuito a costruire il fenomeno Trump senza mai andare a fondo nel capirlo veramente, fino alla discesa in politica nel 2015. Il (finto) miliardario, aiutato dal mago delle pr Howard Rubenstein, è stato abilissimo nel costruire una narrazione che andrebbe studiata nei master di comunicazione e di giornalismo.
L’essenza del suo modello di business, nonostante il presidente continui a negarlo, è che deve tutto a suo padre Fred. Che a sua volta non era certo uno stinco di santo, ma senza dubbio aveva costruito un’impresa solida. Partendo dal Queens e dalla costruzione prima di villette e poi di condomini, Fred Trump tra gli anni Quaranta e i primi anni Sessanta aveva saputo infilarsi bene nei meccanismi dei grandi progetti immobiliari del governo. La sua fortuna erano stati i massicci investimenti pubblici della Federal Housing Administration, nata ai tempi della Depressione per cercare di stimolare l’edilizia.
Il secondo dopoguerra era stato un momento di boom per i costruttori, beneficiari di una gigantesca iniezione di soldi pubblici decisa per rispondere al bisogno di case per fare decollare il “sogno americano”. Fred si era mosso bene per trovare i giusti agganci politici, poi aveva aggiunto all’intraprendenza la scaltrezza imparata nel Queens e aveva ritoccato un po’ i conti delle proprie attività, per fare più margine.
Gli era costato qualche inchiesta e anche un paio di difficili audizioni in Congresso, ma era sopravvissuto e aveva costruito un impero edile del quale per decenni non si è mai saputa la reale dimensione. Fino a quando sono arrivate le inchieste giornalistiche e giudiziarie che sono andate a scavare sulle vecchie attività di Fred, anche grazie alla collaborazione della nipote Mary, la ribelle di famiglia che ha consegnato ai giornalisti migliaia di documenti. E si è capito che il patriarca valeva quasi un miliardo di dollari già negli anni Sessanta, una cifra enorme per l’epoca.
Il cuore delle attività di Fred erano tre grandi complessi residenziali che ha costruito negli anni – in gran parte con soldi pubblici – intorno alle spiagge di Coney Island. Ancora oggi in dieci minuti di auto si può compiere un semicerchio intorno alle attrazioni turistiche locali andando da Shore Haven a Beach Haven e poi al Trump Village, tre piccole città fatte di palazzoni costruiti da Fred, con migliaia di appartamenti vista oceano. In mezzo ci sono l’acquario di New York, la passeggiata in legno lungo la spiaggia e i parchi giochi che si sono succeduti negli anni, esplosi nella prima metà del secolo scorso per poi andare in buona parte in rovina, fino al rilancio parziale che hanno avuto nei primi anni Duemila. Oggi è rinato anche lo storico Luna Park del 1903, attualmente gestito dal gruppo Zamperla di Vicenza, chiamato nel 2010 dal sindaco Michael Bloomberg a rimettere in piedi Coney Island.
Negli anni Sessanta Fred aveva comprato anche i diritti per ricostruire uno degli originali parchi giochi affacciati sulla spiaggia, Steeplechase Park, e la famiglia Trump era entrata così nel mondo dell’entertainment turistico. Non se ne fece niente, ma è in questo ambiente fatto di divertimenti a buon mercato e inquilini da cui riscuotere gli affitti che Donald si è fatto le ossa. Imparando i giochi degli specchi e l’arte di far spendere i soldi alla gente, che metterà poi a frutto nei casinò di Atlantic City, la “sua” Coney Island.
I tre complessi residenziali sulla punta sud di Brooklyn hanno avuto un duplice ruolo, essenziale, nell’ascesa di Donald Trump. Da una parte migliaia di affitti mensili hanno garantito un costante e gigantesco flusso di cassa, gestito da Fred e molto spesso utilizzato per coprire i buchi del figlio. Dall’altra hanno rappresentato la garanzia sulla base della quale grandi banche come Citibank o Bear Stearns (poi fallita nel crack del 2008) hanno rifinanziato per decenni i progetti di The Donald, nonostante i suoi conti costantemente in rosso.
Uno dei momenti più tesi del dibattito presidenziale del settembre scorso tra Trump e Kamala Harris, è stato quando la candidata democratica ha accusato l’avversario di avere alle spalle un’attività imprenditoriale “cominciata grazie a 400 milioni dollari ricevuti su un piatto d’argento da suo padre, che lo ha poi aiutato a uscire da sei bancarotte”. Trump ha reagito con una smorfia: “Non ho ricevuto 400 milioni, magari li avessi avuti. Mio padre era un costruttore a Brooklyn e nel Queens, un grande padre e ho imparato molto da lui, ma ho ricevuto una minima parte di quella cifra e l’ho trasformata in molti, molti miliardi di dollari”.
La realtà che raccontano ora le inchieste è che effettivamente Donald nel corso degli anni ha ricevuto l’equivalente di 400 milioni di dollari da Fred e non è mai stato un miliardario, perché ha sempre agito in perdita grazie ai prestiti delle banche, garantiti dal padre e da Coney Island. Nel 1995, al termine del suo decennio d’oro, quando era al massimo della propria visibilità e dominava sulle copertine dei giornali dedicati ai ricchi e famosi, Donald Trump presentava una dichiarazione dei redditi che mostrava 1,1 miliardi di dollari di perdite. Ogni sua dichiarazione dei redditi è stata tenuta nascosta fino a quando non sono trapelate durante la sua prima presidenza. E grazie a ciascuna di quelle dichiarazioni al fisco – tutte con il segno negativo – per anni e anni non ha mai pagato un dollaro di tasse. In più, sempre grazie a Fred e alle sue connessioni politiche, tutte le prime costruzioni realizzate da Donald a Manhattan hanno beneficiato di esenzioni fiscali quasi totali, in un momento in cui le casse della città erano in profondo rosso.
Il grande interrogativo che neppure gli ultimi libri riescono a risolvere, è perché Fred Trump abbia deciso in modo strategico di scommettere tutto su Donald, tra i suoi cinque figli.
Fu una scelta fatta a tavolino, nella grande villa a Jamaica Estates, nel Queens, dove viveva la famiglia. Fred ha ben presto escluso dalla successione il figlio maggiore Freddie, uno spirito libero che sognava di fare il pilota di aerei e per questo mai apprezzato dal padre: finì morto alcolizzato a quarantatré anni. Le due sorelle e il fratello minore a loro volta sono stati considerati da subito al servizio della carriera di Donald, che ha ricevuto tutta l’attenzione del padre e il massimo appoggio per ogni scelta che faceva, fino alla morte di Fred nel 1999. Sicuramente il vecchio Trump aveva visto qualcosa di più in un figlio che per molti anni gli ha dato solo problemi e che ha poi sostanzialmente raso al suolo i beni di famiglia. Se non era il Donald Trump imprenditore a impressionare il vecchio Fred, probabilmente lo era il Donald comunicatore di sé stesso, capace di creare un brand stellare con il cognome di famiglia. E’ su questo terreno che il figlio – come Fred ripeteva in tutte le interviste – era “in grado di trasformare in oro tutto ciò che tocca”. Papà Trump non è vissuto abbastanza per vedere l’esito di questo percorso, ma certo aveva visto giusto: è innegabile che Donald Trump sia un genio della comunicazione e della politica, perché nessuno che non lo sia riesce a farsi eleggere due volte presidente degli Stati Uniti.
Chi è cresciuto con lui, però, fatica ancora a capire come ci sia riuscito quel ragazzo del Queens che alla fine degli anni Cinquanta, ancora dodicenne, saltava la scuola per prendere la subway fino a Times Square (all’epoca un posto malfamato) per immergersi in quel paradiso di truffatori e prostitute. Da ogni viaggio clandestino a Manhattan, il piccolo Donald tornava con un nuovo coltello tascabile, di cui aveva ormai una collezione segreta quando Fred lo scoprì. Per cercare di rimetterlo in riga, papà Trump caricò il figlio in auto non appena ebbe compiuto i tredici anni e lo portò a duecento chilometri a nord di New York, nell’Accademia militare dello stato, dove sarebbe rimasto fino alla fine dell’adolescenza, tornando nel Queens solo per le vacanze. Anche su quegli anni Donald Trump ha costruito una sua mitologia che adesso – sia pure in ritardo – è stata smontata dal fact checking giornalistico. Ha sempre raccontato di essere stato uno dei cadetti modello e un leader dell’Accademia, ma i documenti e le testimonianze dell’epoca raccontano che era uno studente mediocre, isolato e punito.
Per decenni poi ha sostenuto che in quegli anni era diventato un giocatore di baseball formidabile, svelando di aver pensato a quella carriera e che gli scout di una grande squadra avevano messo gli occhi su di lui (solo che una volta raccontava che erano i White Sox di Chicago, un’altra volta che si trattava dei Boston Red Sox). Quarant’anni dopo ha affermato di aver deciso di rinunciare alla Major League “quando ho partecipato a un test insieme a un ragazzino che si chiamava Willie McCovey: guardando come colpiva la palla, ho capito che non sarei mai stato il miglior giocatore del mondo”. Peccato che i test che avviarono la carriera di McCovey siano avvenuti nel 1955, quando Trump era in terza elementare. Negli anni in cui Donald imparava a giocare a baseball, McCovey era già un campione dei Giants di San Francisco.
Un episodio che non è certo un’eccezione. Trump ha frequentato in seguito la Wharton School all’università della Pennsylvania, una prestigiosa scuola di business, anche in questo caso sostenendo anni dopo di essere stato il primo della classe. Non c’è però traccia del suo nome negli elenchi di tutti coloro che hanno ricevuto in quegli anni almeno una piccola segnalazione per merito. Ma il rapporto fra Trump e la verità era già peculiare fin dai tempi dell’università. Il futuro presidente degli Stati Uniti, per esempio, ha raccontato che a Wharton un professore gli spiegò la curva di Laffer sulle entrate fiscali, che da allora gli è sempre rimasta impressa e che cita spesso per sostenere la necessità di ridurre la pressione delle tasse sull’economia reale. Peccato, di nuovo, che l’economista Arthur Laffer abbia disegnato per la prima volta su un tovagliolino di carta la sua celebre curva nel 1974, sei anni dopo che Trump aveva lasciato Wharton.
McCovey e Laffer sono due ottimi esempi di come sia stata costruita la mitologia trumpiana e vanno di pari passo con l’approccio che Trump ha sempre rivendicato per le sue attività imprenditoriali: agire d’istinto, senza perdere tempo in strategie, studi di fattibilità e due diligence (tutti concetti vietati nel suo ecosistema), distorcendo, se serve, anche la realtà. Si potrebbe aggiungere alla lista degli esempi anche l’elaborata narrazione su come Trump evitò di finire a combattere in Vietnam come gran parte dei suoi coetanei, nonostante provenisse dall’accademia militare. Una complessa storia legata a un presunto problema a un piede, certificato da due ortopedici consenzienti scelti da Fred, e rafforzata dal fatto – più volte citato da Trump – che aveva avuto la fortuna di ricevere un numero alto nella lotteria con cui venivano sorteggiate le partenze per il Vietnam. Peccato, ancora una volta, che quelle lotterie siano cominciate anni dopo il congedo concesso a Trump.
Scansato il Vietnam e finiti gli studi, Donald cominciò a costruire il proprio percorso imprenditoriale tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, mettendo in piedi quel gioco degli specchi che avrebbe fatto la sua fortuna. Dopo essersi dedicato in un primo momento alle attività del padre a Brooklyn, con la benedizione di Fred decise di puntare tutto su Manhattan e si immerse nella vita cittadina, proprio mentre emergeva l’astro politico del nuovo sindaco Abraham Beame, che tra le altre cose era uno dei migliori amici di papà Trump.
Donald inventò un nome per le attività di famiglia, “The Trump Organization”, che dava l’idea di grande gruppo immobiliare (in realtà era solo il rebranding dell’attività che il padre svolgeva tenendo un basso profilo) e cominciò a presentarsi in giro come giovane magnate del real estate. Non aveva alcuna esperienza immobiliare, ma l’essere figlio di Fred Trump gli apriva le porte. Con il flusso di soldi che riceveva dal padre, provenienti dagli affitti di Coney Island, si dedicò in primo luogo a costruirsi un ricco guardaroba, affittò una Cadillac con autista e riuscì a entrare nei circoli più esclusivi della città, in particolare Le Club e 21 Club, che sarebbero diventati i suoi “uffici”. E’ qui che conobbe l’avvocato Roy Cohn, un personaggio scaltro e ben introdotto in tutti gli ambienti politici e giudiziari, che sarebbe diventato il suo mentore (il film “The Apprentice” gli dedica un ruolo forse eccessivo, ma non lontano dal vero). Dopo un primo fallimento in un campo lontano dagli interessi di famiglia, come produttore esecutivo di un musical di Broadway, Trump si lanciò su due progetti ambiziosi che lo tennero sotto i riflettori per buona parte degli anni Settanta.
Uno era la ristrutturazione dello storico albergo Commodore, un’icona di New York accanto alla Grand Central Station che era da tempo in rovina. L’altro era un gigantesco piano di sviluppo di un’area affacciata sul West Side di Manhattan. Su entrambi i fronti, Trump schierò quattro assi: i soldi di Fred, le connessioni di Cohn, le pr di Rubenstein e il gioco degli specchi tra i primi tre fattori. E’ alla metà degli anni Settanta che cominciarono a uscire interviste e pezzi pieni di elogio sul New York Times su un “giovane e importante costruttore di New York” che non aveva in realtà ancora costruito niente, ma si proponeva per gestire lavori enormi.
Trump cominciò a diventare una presenza fissa alle partite dei Knicks e degli Yankees, a offrire cene nei locali più esclusivi e a muoversi in continuazione con la Cadillac su e giù per le avenue della città. Pur non avendo ancora ottenuto le concessioni per Commodore e West Side, i giornali lo raccontavano come se stesse già costruendo un albergo e migliaia di appartamenti. Il gioco degli specchi funzionò per il Commodore. Fred mobilitò la dinastia Pritzker, padroni della catena Hyatt, che decisero di farne un loro albergo. Le pressioni di Trump senior e Cohn sul sindaco fecero ottenere a Donald gli sgravi fiscali che aveva promesso ai Pritzker. Una banca di cui era cliente Fred acconsentì a finanziare i lavori, dietro la garanzia di fideiussioni firmate dal solito Trump senior e da Jay Pritzker.
Fu così che partirono i lavori per realizzare il grande albergo che si sarebbe chiamato Grand Hyatt sulla Quarantaduesima strada. Donald Trump non aveva investito un centesimo, tutto era costruito con i soldi dei Pritzker e delle banche, ma ne approfittò subito per rilanciare alla grande la sua campagna di pubbliche relazioni. I permessi per costruire nell’area sul West Side si erano rivelati difficili da ottenere, ma Trump cominciò a convocare conferenze stampa in cui annunciava che vi avrebbe realizzato il più alto grattacielo al mondo. Era solo uno dei molteplici annunci – tutti senza fondamento – che faceva in quegli anni: promise che avrebbe comprato il World Trade Center, che era stato ultimato da poco, che avrebbe acquistato la squadra di baseball dei Mets o costruito un gigantesco grattacielo a Wall Street.
Tutte cose che lo facevano finire costantemente sui giornali, sempre più abituati a definirlo automaticamente “il giovane magnate immobiliare” o “il celebre costruttore di New York”. La rivista dei ricchi e famosi Forbes, una delle testate che hanno avuto più responsabilità nel costruire da niente il fenomeno Trump, cominciò a inserirlo nelle liste dei super ricchi e a dargli una prima valutazione di 600 milioni di dollari. In realtà viveva da miliardario ma non aveva niente, se non le fortune del padre. Le sue dichiarazioni dei redditi del 1978 e 1979, svelate decenni dopo, mostrano che aveva solo debiti, per un totale di 3,8 milioni di dollari.
Ma il gioco degli specchi e la spregiudicatezza del futuro presidente moltiplicavano tutto. Trump ottenne un forte successo d’immagine negli anni Ottanta riuscendo a costruire la sua Trump Tower sulla Quinta Avenue, ad oggi l’unica delle sue attività che risulti aver fatto veri ricavi, anche in questo caso grazie ai prestiti delle banche. Ma subito dopo fece leva sul suo grattacielo ancora da concludere e sulle proprietà paterne per ottenere i prestiti necessari per lanciarsi sui casinò di Atlantic City, un’attività che lo avrebbe visto impegnato per decenni, sempre in perdita, fino alla realizzazione del monumentale Taj Mahal che mise definitivamente in crisi le sue casse.
Nel 1986 l’allora quarantenne Trump, secondo quanto hanno scoperto solo di recente i giornalisti americani, aveva un miliardo di debiti. Eppure era uno degli uomini più celebri di New York, un brand di livello nazionale e il Wall Street Journal lo paragonava al personaggio di Gordon Gekko che Michael Douglas aveva portato sul grande schermo in quegli anni con “Wall Street”. Trump si spostava in elicottero o sul suo aereo privato (tutti acquistati a debito e in realtà di proprietà delle banche), comprava l’hotel Plaza, il Nabila di Kashoggi, la villa di Mar-a-Lago in Florida o una compagnia area per fare voli tra New York e Washington e il suo nome riempiva i giornali. Ma in realtà lo shopping folle tra Manhattan, Atlantic City e Palm Beach gli aveva fatto fare 1,7 miliardi di debiti, che Fred si dovette far carico di contrattare con le banche che lo tenevano in piedi. Fu sempre il Wall Street Journal, anni dopo, a svelare che Citibank, Bear Stearns e gli altri istituti che finanziavano Trump gli avevano prestato oltre due miliardi con garanzie incrociate sugli stessi asset, all’insaputa l’uno dell’altro.
Il tutto avveniva mentre i giornali si riempivano anche delle cronache rosa su Trump. Prima la tumultuosa love story con Ivana, poi la scoperta del tradimento di Donald con la modella Marla Maples, un tormentone raccontato per mesi sui tabloid che facevano a gara per avere rivelazioni. E Trump, che parlava con i giornalisti dietro lo pseudonimo “John Barron”, un presunto e inesistente portavoce della Trump Organization, non si tirava mai indietro. Anzi. Una volta che non aveva gradito un articolo del New York Post, chiese come riparazione una cover story su di sé. Il direttore del Post acconsentì, ma serviva una notizia per fare il titolo. “Marla mi ha detto – disse Trump – che con me sta facendo il miglior sesso della sua vita”. La prima pagina del New York Post del febbraio 1990 con il titolo “Marla: Best Sex of My Life” da allora è diventata un pezzo da museo della cultura popolare americana.
Con la Maples ci fu il secondo matrimonio, che ovviamente dominò le cronache, seguito dalla nascita di una figlia, Tiffany, che andava a unirsi a Don Jr, Ivanka ed Eric avuti con Ivana. Poi arrivò il divorzio e la nuova storia con Melania, il terzo matrimonio e la nascita di un figlio a cui diede il nome del finto portavoce che usava per parlare con i giornalisti: Barron. E ogni tappa fruttava pagine e pagine di pubblicità gratuita sui tabloid e ore di preziosa copertura televisiva.
Le modalità con cui nel frattempo Fred Trump copriva le voragini finanziarie provocate dal figlio in alcuni casi sembrano uscite da un film. Buettner e Craig nel loro libro raccontano per esempio uno dei tanti momenti in cui un bond emesso per finanziare uno dei casinò di Donald stava per arrivare a scadenza senza che lui avesse il cash per pagarlo. Gli mancavano alcuni milioni e una sera due emissari di Fred Trump si presentarono in uno dei suoi casinò con un assegno da 3,35 milioni e se lo fecero cambiare in 670 fiches da cinquemila dollari l’una al tavolo del black jack. Poi le misero in una valigetta e le portarono a Fred, che così era riuscito a finanziare in modo semiclandestino il figlio, tenendosi le fiches.
A fine anni Novanta, Donald Trump era sostanzialmente in bancarotta, ma lo hanno tenuto in piedi le banche e l’eredità del padre quando è morto nel 1999. A New York spuntavano grattacieli con il nome “Trump” a Central Park e in altre zone della città, ma erano di proprietà di altri, lui affittava il nome e l’immagine presentandoli come opere sue. Chi scrive ha partecipato per esempio nel 2002 con altri giornalisti all’inaugurazione della Trump World Tower, un grattacielo di novanta piani di fronte alle Nazioni Unite. Donald ci portò nel lussuoso attico con vista sulla città e ci spiegò con orgoglio le caratteristiche di quel suo nuovo edificio e della rivista sul lusso che lanciava in contemporanea, “Trump World”. Circondato da attrici e modelle, ci presentò anche il “cocktail più costoso del mondo” che si serviva nel suo “World Bar”, impreziosito da una foglia d’oro. Evitò però di dirci quello che hanno scoperto i giornalisti vent’anni dopo: il palazzo era di una società coreana che gli aveva concesso una percentuale in cambio dell’uso del suo nome, il giornale era di un editore esterno che aveva fatto altrettanto e anche il bar era gestito da un’altra società.
Nel febbraio 2003 Trump era alle prese con l’ennesimo rischio bancarotta per uno dei suoi casinò. Aveva tempo fino a novembre per trovare 312 milioni di dollari da versare alle banche, frutto in buona parte degli interessi sul miliardo e settecento milioni di dollari di prestiti che aveva ricevuto. Mentre si scervellava su un piano per emettere altri 500 milioni di junk bond per tirare a campare, gli capitò un nuovo, colossale colpo di fortuna.
Il network Nbc era alla ricerca di una nuova serie da proporre agli inserzionisti, che prendesse il posto di “Friends” che stava per concludersi dopo dieci anni di successo. I responsabili della tv di New York erano riusciti a strappare alla Cbs il produttore inglese Mark Burnett, che in quegli anni era all’apice del successo per aver inventato il reality show “Survivor”. La sfida tra persone abbandonate a sopravvivere su isole deserte e foreste aveva raccolto audience stellari e Burnett aveva in mente un nuovo concetto: sopravvivere nella giungla di Manhattan, cercando di battere gli avversari in una competizione per essere assunti da un miliardario. Furono contattati alcuni miliardari, tra cui Bill Gates e Warren Buffett, che dissero però di non aver tempo per dedicarsi a una serie tv. In fondo alla lista c’era Donald Trump, che alla Nbc tutti conoscevano benissimo e di cui si sapeva che valeva assai meno di quello che raccontava. Ma Trump era disponibilissimo e pronto a costruire un reality su sé stesso.
Burnett e il suo team restarono sbalorditi dalla visita ai suoi uffici nella Trump Tower, scoprendo che la mitica “Trump Organization” era una realtà di poche decine di persone in spazi ristretti e con mobili vecchi. Fu deciso di prendere in affitto un intero piano del grattacielo e ricostruire da zero finti uffici di Trump. E’ quello che per anni è diventato il set di “The Apprentice”, una serie che fin dall’inizio è stata un gigantesco spot per Trump in prime time televisivo, con decine di milioni di spettatori. Un racconto epico di un Trump che non esisteva nella realtà, per il quale il futuro presidente non solo non ha dovuto pagare niente, ma ha ricevuto centinaia di migliaia di dollari di compenso a puntata, più la metà di tutti i ricavi pubblicitari e lo sfruttamento di tutto il merchandising. (Non sorprende che pochi giorni fa Trump abbia nominato Mark Burnett come suo inviato speciale per il Regno Unito nella prossima amministrazione).
“The Apprentice” ha rilanciato e reso nazionale per anni il marchio Trump, ha aperto un nuovo flusso di cassa per The Donald e ha costruito il mito dell’imprenditore di successo, nonostante il suo impero abbia continuato a restare in perdita (e in buona parte lo sia ancora oggi).
Quando l’effetto di “The Apprentice” cominciò a esaurirsi, Trump si guardò intorno per cercare l’ennesimo rilancio spettacolare del proprio brand. Il 16 giugno 2015 scese la scala mobile nell’atrio di marmo rosa della Trump Tower e annunciò ai giornalisti in attesa che si candidava per la Casa Bianca. Era un nuovo modo per farsi pubblicità e probabilmente ci credeva poco anche lui. Ma sono passati dieci anni e il 20 gennaio prossimo, per la seconda volta, The Donald giurerà da presidente degli Stati Uniti.