I problemi globali creati dagli houthi
Lo Yemen è al collasso, ma il gruppo continua ad avere sostegno anche grazie alla guerra a Israele e alle navi nel Mar Rosso
Yahya Saree si presenta davanti alle telecamere ogni volta che deve rivendicare un attacco contro Israele o contro una delle navi occidentali che passano per il Mar Rosso. Mostrine, berretto rosso, è il portavoce degli houthi e con orgoglio mescola rivendicazioni e minacce dal 2018. Gli attacchi degli houthi sono frequenti, il gruppo armato dall’Iran, dai tempi della guerra che ha devastato lo Yemen, manda droni che costringono gli israeliani nei rifugi e a volte eludono le difese del paese.
Dopo aver eliminato il potere di Hezbollah in Libano, aver dato la caccia a Hamas nella Striscia di Gaza, tra i gruppi amici della Repubblica islamica che dopo il 7 ottobre hanno dichiarato guerra a Israele, gli houthi sono quelli più in buona salute. Sono anche i più lontani, quelli di cui Israele per il momento si è occupato meno: colpire Hamas era una priorità dopo il pogrom nei kibbutz del sud; fare la guerra a Hezbollah era essenziale perché il potere militare del gruppo e la sua organizzazione erano diventati potenzialmente letali. Gli houthi invece sono rimasti un problema più lontano e soprattutto non soltanto regionale. Israele ha detto che colpirà prima le infrastrutture del gruppo nello Yemen, e ha già iniziato a farlo con azioni mirate e non semplici prendendo di mira gli impianti energetici e le vie di comunicazione per il trasporto delle armi e ha promesso ai leader degli houthi quello che ha promesso ai capi degli altri gruppi di terroristi: vi verremo a cercare e vi troveremo, l’uno dopo l’altro.
Finora Israele si è confrontato con nemici confinanti, bombardare in Yemen ha bisogno di una preparazione meticolosa che per ora Tsahal ha dimostrato di sapere attuare, ma ogni risposta agli attacchi degli houthi è laboriosa. C’è anche una considerazione di carattere diplomatico che Israele fa quando si parla di houthi. I vari fronti della guerra contro lo stato ebraico sono una questione molto più internazionale che strettamente israeliana, e questo principio vale ancora di più con gli houthi. Quando il gruppo aveva per primo dichiarato di essere pronto a unirsi alla guerra al fianco di Hamas non aveva preso di mira soltanto Israele ma il commercio globale che passa per il Mar Rosso. Soltanto i mercantili di iraniani, russi e cinesi sono stati lasciati passare in cambio di armi, denaro e ideologia. La guerra che gli houthi hanno dichiarato non è quindi un affare soltanto israeliano ma riguarda tutti. Lo hanno capito in parte gli americani che hanno deciso di pattugliare le rotte commerciali e con i britannici hanno colpito nel territorio yemenita ma senza dimostrare la potenza per mettere fine davvero al pericolo degli houthi. Per neutralizzare il gruppo, anche per la distanza geografica, Israele avrebbe bisogno di un sostegno maggiore da parte dei suoi alleati: logistica, supporto, coordinamento.
Gli houthi erano conosciuti come un gruppo che combatteva sulle montagne dello Yemen, sono stati rafforzati da Teheran e da Hezbollah che ne hanno fatto una potenza militare ben equipaggiata in grado di lanciare missili e droni verso le portaerei americane a duemila chilometri di distanza. Controllano i due terzi della popolazione yemenita che è tra le più povere al mondo e la più povera dei paesi del mondo arabo, con 34 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria. Gli houthi non si occupano della situazione economica e finora la guerra contro Israele li sta aiutando a godere di un buon grado di successo tra la popolazione.
Ieri il Wall Street Journal riportava un dibattito vivo dentro alla leadership israeliana: colpire gli houthi o agire direttamente sull’Iran? Il gruppo yemenita è un’emanazione di Teheran e Israele si chiede se anziché cercare di eliminare quelli che un tempo venivano definiti ribelli e oggi controllano le istituzioni non sia una perdita di tempo che rimanda soltanto il momento in cui ci sarà lo scontro con la Repubblica islamica. Israele si aspetta un cambiamento radicale da parte dell’Amministrazione Trump. Ieri il futuro capo della Casa Bianca durante una conferenza stampa ha ribadito che se gli ostaggi israeliani non saranno tornati in libertà prima del 20 gennaio, giorno del suo insediamento, allora lui “scatenerà l’inferno” in medio oriente. Se questo inferno di cui ha parlato per ben due volte comprende soltanto Gaza non lo ha mai specificato.