La poesia di una battuta

Un ex prigioniero di Evin ha raccontato il rischio e il sollievo di una frase ironica

“Non so che cosa mi spinse a fare una battuta davanti a dei giornalisti durante il mio primo isolamento a Evin", ha scritto sull'Atlantic Kian Tajbakhsh, per un anno in isolamento nel carcere iraniano. La risposta in un libro di Oriana Fallaci e in Milan Kundera

La prigione di Evin, nel nord della capitale dell’Iran, “occupa un posto speciale sia nell’apparato di sicurezza del regime sia nell’immaginario politico di molti iraniani”, scriveva sull’Atlantic due anni fa Kian Tajbakhsh, che fu arrestato prima nel 2007 perché lavorava per l’Open Society di George Soros e poi nel 2009, perché aveva partecipato alle proteste del Movimento verde: passò più di un anno in isolamento a Evin e poi altri sei in arresto a casa (è stato liberato nel 2016). In questo articolo, Tajbakhsh racconta un episodio: “Non so che cosa mi spinse a fare una battuta davanti a dei giornalisti durante il mio primo isolamento a Evin. Stavo andando a una sessione di interrogatori, quando sono stato fermato e mi è stato chiesto di togliermi la copertura sugli occhi. Il direttore del carcere si è presentato e mi ha chiesto come stavo, come se ci fossimo incontrati al parco. ‘Okay’, ho risposto diffidente, notando il contrasto tra i miei vestiti da prigioniero e il suo abito formale. Poi mi ha detto: ‘Un gruppo di giornalisti internazionali sta visitando Evin proprio in questo momento e vogliono farti delle domande su come sono le condizioni qui’. Naturalmente si trattava di un allestimento fittizio e io non avevo scelta se non assecondare la  sceneggiata. Ho sentito che il direttore diceva, mentendo, che Evin rispettava gli standard internazionali per le carceri, e poi si è voltato verso di me, come se fosse il manager di un albergo, e mi ha chiesto: ‘Come sono i servizi nella tua stanza, sei soddisfatto della tua cella?’. Ero stato istruito a parlare in farsi, e così feci. Dissi che le condizioni erano a posto, che ero in una cella di isolamento con un bagno e spiegai che mia moglie mi faceva visita ogni settimana. Ma le domande del direttore mi erano sembrate così assurde che aggiunsi, impassibile: ‘L’unica cosa che manca è una piscina’”. Tajbakhsh spiega che a quel punto è stato portato via, e che non ha potuto aggiungere il fatto di essere un iraniano con doppia cittadinanza – americana – e che il suo caso era seguito dagli Stati Uniti, quindi con tutta probabilità il suo trattamento era migliore di quello riservato agli altri prigionieri politici.

Nei servizi dei giornalisti internazionali, come la Bbc, la battuta non è stata riportata, probabilmente il traduttore non l’ha citata, ma nei media iraniani invece c’era, ma non come battuta: sembrava che Tajbakhsh parlasse sul serio. Qualche settimana più tardi, il giudice che stava valutando il suo caso, gli disse: mi sembra che ti consideri “molto spiritoso”. “Perché ho corso il rischio di fare quella battuta?”, si chiede Tajbakhsh, e cerca una risposta: “Forse mi sentivo più dispettoso perché avevo appena letto un resoconto divertito delle uscite di Alexandros Panagoulis, un poeta e un attivista democratico imprigionato dalla giunta militare in Grecia nel 1969”: aveva letto “Intervista con la storia” di Oriana Fallaci, un libro che sua moglie gli aveva portato in carcere. Tajbakhsh dice di aver riso, nella solitudine della sua cella, leggendo dell’episodio del cucchiaio.

Panagoulis era quasi riuscito a evadere dal carcere scavando un buco nel muro con un cucchiaio, ma quando il direttore del carcere era arrivato da lui dicendo che sarebbe stato ammanettato per via della malefatta, Panagoulis gli aveva detto: “Non crederà davvero a questi imbecilli? Non vorrà davvero prendere sul serio la storia del cucchiaio? Un muro non è un budino!”.

Tajbakhsh cita Milan Kundera, autore di “Lo scherzo”, che “diceva che il problema delle ideologie totalitarie è il modo con cui rappresentano il mondo ‘da un unico punto di vista’, quello che acceca tutti i seguaci di questa presunzione”. L’ex prigioniero conclude questo ragionamento dicendo: “Forse l’unico modo per ribaltare un oppressore alla fine è con il fuoco e con i pugni. Ma talvolta l’oppresso può cercare di riprendersi un po’ di potere semplicemente facendo sembrare ridicolo il tiranno”. La battuta di Tajbakhsh è stata ripresa da Ebrahim Nabavi, che ne ha fatto una poesia: Nabavi è uno dei comici più famosi dell’Iran, è stato incarcerato due volte per la sua ironia.

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