il ritorno
La cella di Cecilia raccontata da lei
I ventuno giorni a Evin, i conteggi, gli obiettivi quotidiani, la vita in tre metri per due e la paura di essere dimenticata, come i dissidenti a pochi passi da lei. Un pomeriggio di chiacchiere (e fiori)
In cucina c’è un mazzo di fiori colorati, Cecilia va avanti e indietro con i bicchieri, ha l’aria stanca, “non ho dormito nemmeno stanotte”, dice senza mai sedersi, “sono stata ferma tanto”, aggiunge con un sorriso che non è ancora quello di sempre. Ha contato e ricontato tutte le tacche che un detenuto prima di lei aveva lasciato sul muro giallino della cella a Evin, ha contato e ricontato le sbarre della piccola finestrella da cui ha imparato a capire, a seconda del riflesso del sole, che orario del giorno fosse, ha fissato tutti i segni rimasti sulle pareti e sulla porta con la finestrella e sotto il varco per far passare il cibo, le vite di chi è passato in quella cella tre metri per due prima di lei.
Nei ventuno giorni che Cecilia Sala ha passato a Evin – quasi sempre da sola, in isolamento completo, dormendo per terra, con una lampadina sempre accesa, a parte gli ultimi giorni, quando è arrivata “Farzaneh, che ha cinquantaquattro anni ma sembra una ragazza” – il silenzio interrotto soltanto dagli interrogatori quotidiani si è mischiato alla paura, ai calcoli ossessivi dei giorni per non perdere il conto e al fatto di sapere che cosa significa finire senza ragione nel carcere più famoso di Teheran. Ha sentito una voce francese e ha pensato a Cécile Kohler, l’insegnante che è detenuta dal maggio del 2022, arrestata assieme a suo marito, in isolamento da allora, accusata di spionaggio: i pensieri neri si intrecciano alle storie che Cecilia ha letto e raccontato, ai tanti casi che conosce di iraniani e stranieri che sono finiti a Evin e ci sono stati per anni, o non sono ancora usciti, a quel che gli ex detenuti hanno poi detto. La consapevolezza di quel che accade lì dentro è uno scudo, aiuta a prevedere alcune mosse dei carcerieri, ma si trasforma anche, molte volte, in terrore: non esco più.
Della campagna per la sua liberazione Cecilia ha saputo soltanto quando è uscita, lì dentro c’era soltanto quel che le hanno detto i carcerieri. Una delle poche notizie dal mondo che le sono state riferite: è morto Jimmy Carter, il presidente americano che gestì la crisi degli ostaggi all’ambasciata americana, il momento cioè in cui si è sfasciato il rapporto tra la giovane Repubblica islamica d’Iran e l’America, “mi ha fatto un po’ ridere che fra tutte le cose possibili ci tenessero a citarmi proprio la morte di Carter”, pure se quel termine, ostaggio, si porta dietro altri pensieri neri, altre domande senza risposte. Che poi tornavano, soprattutto di notte, assieme a quelle degli interrogatori, che cosa useranno contro di me?, che cosa contro le persone che ho incontrato, le sto mettendo in pericolo? Cecilia era sola nella cella ma in quella semiveglia senza mai riposo che sono state le notti a Evin le comparivano come fantasmi gli iraniani con cui ha lavorato.
Per non farsi annichilire dalla solitudine, dal silenzio e dalla paura, per non crollare, ha cercato di darsi dei piccoli obiettivi quotidiani, una sigaretta, i datteri, ha chiesto soltanto una volta una pillola per dormire ma poi non lo ha fatto più, troppo stordimento. Ha girato e rigirato per la cella, ha chiesto un libro pure se non aveva gli occhiali – “non te li danno per ragioni di sicurezza, ma non mi hanno dato nemmeno le lenti a contatto, con cui certo non puoi farti del male” – e non le hanno concesso nulla, nemmeno un Corano in inglese, che in quel tempo dilatato sarebbe stato comunque un riempitivo. Il cibo, almeno quello, non è mai mancato, riso e pollo, riso e lenticchie, riso e manzo. I pasti servivano a scandire le giornate, in parte, il resto era tutto scelto dai carcerieri: che cosa poteva sapere e cosa no, gli interrogatori e la loro durata, l’avanzamento della inchiesta su di lei. Le cose sono un pochino migliorate quando è arrivata Farzaneh, che parla poco l’inglese ma i codici per comunicare li hanno trovati in fretta, così come i nomi agli altri “compagni” di cella – il raggio di sole dalla piccola finestra era Ana, l’uccellino che si sentiva cinguettare nitido era David – e poi sono stati consegnati il bite per i denti e un libro, “Kafka sulla spiaggia” di Haruki Murakami, non una lettura per svagarsi, ma in questo mondo ristretto in cui non si può scegliere nulla, l’ha letto veloce.
Infine è arrivata la mattina dell’8 gennaio: il giorno prima Cecilia aveva telefonato a casa, aveva un tono di voce migliore rispetto a quello – strozzato, straziante – del primo gennaio, ha detto che le condizioni erano leggermente migliorate, che l’isolamento era finito. Poi c’è stato un lungo interrogatorio. La mattina dopo è andata davanti a un giudice e a un procuratore nella stanza che gli ex detenuti chiamano “la corte”: per molti di loro lì è stato chiuso il loro dossier, tutte le testimonianze, si fa per dire, scritte a mano e firmate sono state raccolte, l’accusa viene formulata, poi si va nel tribunale in città e c’è la conferma ufficiale che diventa pubblica. Cecilia è stata portata davanti ai due, che parlavano poco inglese, e le hanno detto che avevano deciso di liberarla. Ha pensato: non ci credo. O forse: non voglio illudermi, perché poi se non è così allora sì che crollo. E’ tornata nella cella, è stata accompagnata in un’altra stanza dove c’era la sua valigia e il sacchetto nero consegnato dall’ambasciatrice Paola Amadei nell’unica visita concessa, è stata la prima volta che ha rivisto le sue cose dalla mattina del 19 dicembre, quando è stata arrestata nella sua camera d’albergo.
La liberazione sembrava sempre più concreta, “ma no, non volevo, non potevo ancora crederci”. E’ tornata in cella e si è cambiata, togliendo per la prima volta la divisa del carcere – una tuta grigia, una tunica al ginocchio blu e uno chador blu – e ha salutato Farzaneh, il momento più difficile, che ricorre ancora e ancora da quando è tornata: lei, che è accusata di opposizione al regime, è rimasta nella loro cella, da sola, così come i tantissimi altri dissidenti, di cui poi si sa poco e niente, e li si dimentica. La solidarietà in tre metri per due e in pochi giorni è fatta di un linguaggio comune inventato in fretta e di un abbraccio di addio che è forte e commovente e simbolo dell’ingiustizia subita.
Poi un’auto bianca che attraversa Teheran, e che può essere diretta ovunque, all’aeroporto per tornare a casa ma anche no. Cecilia si illumina e si oscura insieme mentre racconta quel viaggio per la capitale iraniana: la luce e il cielo e l’orizzonte per la prima volta dopo tre settimane, in una città amata che è diventata prigione e paura, e chissà se questa è l’ultima volta che Cecilia ci passa in mezzo. Poi l’arrivo all’aeroporto, “il primo volto visibilmente italiano, allora sì, sono libera davvero”, il suo sorriso mi sembra per un attimo quello di sempre.