l'intervista
Il dietro le quinte della liberazione di Cecilia. Parla Paola Amadei
La prima conferma, le paure inconfessabili, la preparazione dello zaino. Il lavoro della macchina istituzionale in carne e ossa. La capo missione a Teheran, ci apre il taccuino della crisi fra Italia e Iran che ha avuto al centro la nostra giornalista per venti giorni
Ventuno giorni. Tanto è durata la detenzione illegittima e ingiusta di Cecilia Sala nel famigerato carcere di Evin, a Teheran. E per ventuno giorni, tutti i giorni, l’ambasciatrice Paola Amadei ha tenuto un diario: “In realtà è un taccuino, ma va bene anche diario”, spiega al Foglio Amadei, che da poco meno di un anno è a capo della missione italiana nella capitale iraniana. “E’ molto importante nel nostro lavoro tenere nota di tutto, di ogni cosa”. Delle parole dette, ma anche delle impressioni che si hanno al momento: “L’ho portato con me sin dal primo giorno di questa crisi. Ci ho annotato tutto, dagli incontri alle conversazioni che ho fatto, e poi le indicazioni del ministro Tajani, ma anche le piccole cose, le necessità che mi venivano in mente potessero essere utili a Cecilia, quello che mi dicevano i genitori”. Per un diplomatico, ovunque nel mondo, non accade di rado trovarsi a gestire la detenzione di un concittadino. In quei casi ci sono regole e protocolli codificati, che si studiano sin dalla scuola per diplomatici. Ma il caso della giornalista Cecilia Sala è stato completamente diverso e riguarda tutt’altra categoria: per i funzionari del ministero degli Esteri è una crisi. Ogni singolo passo può compromettere i negoziati, avere delle conseguenze. E al centro c’è la persona, dietro ai protocolli alle regole e ai doveri d’ufficio. Una persona privata delle sue libertà mentre stava facendo il suo lavoro, di cui si hanno notizie solo frammentarie, contraddittorie, in un gioco di equilibri spesso non facile da gestire.
“Queste sono anche giornate di gioia, per tutti noi”, dice Amadei al Foglio. Le chiediamo qual è la prima frase che ha appuntato sul suo diario-taccuino: “La prima frase è: ‘condizioni di salute’. Davvero quella era una grande preoccupazione, forse la principale, sin all’inizio”.
Ma in questa conversazione con il Foglio Amadei vuole partire dall’inizio: “I contatti con l’unità di crisi della Farnesina sono cominciati la sera del 19 dicembre, perché il cellulare di Cecilia risultava irraggiungibile”, spiega l’ambasciatrice. Il giorno dopo la giornalista aveva un volo attorno alle 11 del mattino: “Vedendo che non rispondeva al cellulare, un funzionario dell’ambasciata si è recato all’aeroporto perché conoscevamo il suo volo di ritorno e quindi abbiamo pensato che forse l’avremmo rivista lì”.
“Magari il cellulare era semplicemente scarico”, spiega Amadei, “o magari l’aveva perso, o non aveva potuto rispondere al telefono – sa, qui a volte le telefonate si interrompono, la linea da un momento all’altro smette di funzionare. Quindi il funzionario va all’aeroporto, e quando abbiamo capito che non sarebbe più arrivata, abbiamo richiamato l’unità di crisi. Il 20 stesso abbiamo visto che di Cecilia non si aveva più traccia e la telefonata con i genitori ce l’ha confermato. A quel punto, dall’Italia dove mi trovavo per la conferenza degli Ambasciatori, sono ripartita immediatamente per Teheran, era un caso che dovevo seguire dall’inizio”.
Da lì inizia l’azione diplomatica, e tutti gli incontri con i funzionari del governo iraniano: Amadei sfoglia le pagine del taccuino: “Qui c’è l’incontro col direttore generale per gli Affari europei, quello con il Direttore per gli Affari consolari, con il viceministro degli Affari politici, cioè il numero due degli Affari esteri. In tutti questi incontri, su indicazione del ministro Tajani, abbiamo chiesto innanzitutto la sua liberazione immediata”, e legge: “Immediate release”, “best possible conditions of detention”. E poi “i capi d’accusa, quali fossero, e in ogni singola occasione abbiamo chiesto l’assicurazione che le fossero riservate le migliori condizioni detentive possibili”. Per capire davvero le condizioni di una detenuta nel carcere di Evin, però, serve entrare nel carcere di Evin. Era la prima volta che ci entrava? “Sì, lo era”.
L’ambasciatrice ci dice il titolo di una delle pagine più importanti, la frase che ha scritto all’inizio del foglio bianco, così in stampatello: “VISITA CONSOLARE 27 DICEMBRE ORE 11, TEHERAN”. “Abbiamo chiesto tante volte di anticipare il più possibile la visita, anche perché erano i giorni di Natale”. L’ambasciatrice ci spiega che i funzionari iraniani le hanno comunicato la possibilità dell’urgente visita consolare il giorno prima, il 26 dicembre. “Sono andata insieme al mio vice, Andrea Benzo. Abbiamo fatto il colloquio in una stanza, con due guardiani, un funzionario e una addetta del penitenziario che aveva accompagnato Cecilia. In tutto è durato circa mezz’ora, in inglese”. L’inglese è imposto affinché chi monitora il colloquio possa sentire e soprattutto capire. C’è un protocollo per questo genere di conversazioni da parte dei diplomatici, e la prima cosa di cui si deve parlare riguarda lo stato di salute del detenuto e se ha necessità urgenti, anche relative, per esempio, alle medicine. “In questi casi si domanda tutto: ho chiesto per esempio tutte le intolleranze alimentari, se aveva delle allergie e dovevamo avvisare il carcere, se aveva bisogno di farmaci particolari”. Sono domande intime, ma questo fa anche parte del lavoro del diplomatico, dice Amadei. “Come ho detto quel giorno stesso, le condizioni fisiche di Cecilia erano buone, parlo di quelle fisiche. Certamente i giorni successivi hanno inciso sul suo stato, ma siamo riusciti a ottenere che potesse contattare i suoi familiari”. “L’impressione che ho avuto visitandola è stata quella di una giovane donna forte e coraggiosa, certo provata, ma molto lucida”. L’ambasciatrice sfoglia il taccuino: “Ripensandoci, a dimostrazione della passione con cui svolge il suo lavoro, mi ricordo che tra le cose di cui abbiamo parlato lei a un certo punto mi ha chiesto se in quelle giornate, durante la sua detenzione, fosse successo qualcosa nel mondo. Mi ha proprio chiesto: ‘Che cosa è successo in questi giorni? Sono successi degli eventi?’. Voleva sapere: era una settimana in cui lei era senza notizie, isolata dal mondo”. Poi le medicine, certo, “ma lei desiderava soprattutto gli occhiali, e ha voluto dei libri che poi le abbiamo portato – si è parlato tanto sulla stampa di questo pacco”. Prima di uscire da quella stanza, spiega Amadei, “l’ho abbracciata e le ho detto che il governo stava facendo ogni sforzo per poterla liberare e ho cercato di farle sentire la vicinanza di tutti noi e di darle coraggio. Le ho riferito quello che il ministro Tajani mi aveva incaricato di dirle, e cioè che non era sola. E quindi bisognava solo aspettare – questo gliel’ho detto un po’ in inglese e in italiano”.
Torniamo al pacco. Che poi non era un pacco, ma una borsa nera, che è stata caricata in aereo ed è stata riportata a casa, insieme alla valigia che aveva Cecilia per la sua trasferta. Quella borsa “l’ho preparata la sera stessa della visita consolare, ci abbiamo messo tutto quello che potevamo, tutto: indumenti, libri – alcuni dei classici su indicazione della mamma – e poi anche dei libri specifici che mi aveva chiesto Cecilia che mi sono procurata il giorno stesso. La sera la borsa era pronta, pure di cose che mi sono venute in mente, indumenti caldi e comodi, che potessero esserle utili”. L’ambasciatrice sottolinea che c’era di tutto, non entra nei dettagli, ma anche nella preparazione del pacco c’è una strategia: non si possono mettere troppe cose per non dare l’impressione che si tratterà di una detenzione lunga, né all’arrestato né ai carcerieri, e quindi al governo. E’ vero quello che è stato scritto, sui panettoni? “C’erano anche dei panettoni, delle cioccolate. Erano i giorni di Natale, e l’idea era di farla sentire un po’ vicino a casa”.
“Noi abbiamo recapitato lo zaino il giorno dopo, la mattina del 28 dicembre. Mi è molto dispiaciuto che non le sia stato consegnato il giorno stesso, le è stato consegnato qualche giorno dopo”. Le autorità iraniane, dice l’ambasciatrice al Foglio, non avevano comunicato cosa avrebbero potuto mettere e cosa no: “Sappiamo però che una volta consegnata la borsa, loro avrebbero controllato. Abbiamo spiegato che il panettone era il nostro dolce di Natale ed hanno fatto un’eccezione perché è vietato portare cibo nel penitenziario”.
C’è un altro tema di cui si è discusso molto sui giornali in questi giorni: se qualcosa è successo, nei due giorni fra l’arresto di Abedini in Italia e l’arresto di Sala a Teheran, un meccanismo che forse si è inceppato nella comunicazione. “Senza entrare nei dettagli, nei confronti dell’Iran ci sono delle indicazioni di carattere generale, che valgono sempre. Non solo in questa circostanza, ma anche in altre. Le indicazioni della Farnesina sui viaggi in Iran sono contenute sul sito Viaggiare Sicuri”. “Quello che posso dirle è che l’azione di governo non si è mai interrotta nei giorni immediatamente successivi fino alla giornata di ieri, quando è stato chiaro che eravamo vicini alla conclusione”.
Il giorno della liberazione è arrivato, nel giorno stesso in cui gli iraniani avevano promesso un’altra visita consolare nel carcere. Mentre Cecilia Sala stava per essere accompagnata in aeroporto, l’ambasciatrice Amadei era al carcere di Evin e poi, dopo aver contattato gli Esteri, al telefono con la Farnesina. Qual è l’ultima frase che ha appuntato sul suo taccuino-diario? “E’ la conversazione con il ministro, quando l’ho richiamato l’8 gennaio, e l’impressione era che si fosse ormai vicini a una conclusione positiva”.
Paola Amadei, classe 1964, è una diplomatica che conosce bene la regione: è stata capo missione in Oman, Bahrein, e all’inizio del 2024 si è parlato di lei perché era la prima ambasciatrice donna a ricoprire quel ruolo nella Repubblica islamica dell’Iran: “Devo dirle che il fatto che io sia donna non ha mai costituito una limitazione all’assolvimento dei miei doveri in qualità di capo missione. Sono onorata di rappresentare il mio paese in Iran. Avverto un senso di grande responsabilità, è un grande onore”.