gioco d'azzardo
Nel rogo di Los Angeles c'è tutta la città americana che allucina se stessa
Resistere disarmati alla propria agonia. Incendi, siccità e crisi infrastrutturali svelano il lato oscuro del sogno californiano, in una metropoli che è "una miscela unica di pericoli naturali e contraddizioni sociali". E che dimentica i disastri passati, sospesa tra delirio e catastrofe
Tanti anni fa, nei giorni successivi a un sisma minore che aveva colpito la città di Los Angeles (quello di Northridge), l’amico sociologo Mike Davis – scomparso nel 2022 – nei panni di un paziente Virgilio, m’invitò a una passeggiata sulle alture di San Bernardino, dietro Pasadena, da dove si gode di una perfetta vista circolare sulla sterminata area urbana della metropoli californiana. Mi portava fin là per suffragare la tesi a cui stava dedicando le proprie energie: spiegare a studenti e lettori che quel posto, magnifico e terribile, era a tutti gli effetti il prodotto di un delirio autolesionistico. Messa in relazione con il costume, i consumi, lo stile di vita, lo sviluppo urbanistico in via di dispiegamento, Los Angeles era, in buona sostanza, una città di pazzi.
Solo l’assenza di coscienza, o il masochismo, potevano convincere milioni di persone a costruire le case e il proprio futuro in un posto condannato a distruzione a orologeria, senza avere nemmeno contezza da che parte, nel giro di un numero limitato di anni, quella distruzione sarebbe arrivata, forse dalle viscere della terra, scrollata dall’ennesimo mal di pancia della faglia di S.Andrea, o forse arsa come una scatola di fiammiferi dagli incendi sospinti dai tremendi venti che imperversano laggiù, allorché non fossero accompagnati da copiose piogge riparatorie.
Ricchi e poveri, peones dei suburbia multirazziali e miliardari con il suv elettrico immobilizzato dalla fine dell’elettricità si sarebbero ritrovati insieme nell’esodo di chi ha perso tutto, condannati da una scommessa inaccettabile: vivere in un luogo che è la nemesi di se stesso. Davis all’argomento ha dedicato due libri definitivi, “Citta di Quarzo” del 1990 ed “Ecologia della Paura” del 1998, in cui già analizza le concause di questo scenario devastante, un LA noir a base di incendi, terremoti e inondazioni.
E allora ecco il cambiamento climatico che ha alimentato il caldo estremo e ha inaridito il paesaggio in regioni già suscettibili a incendi e le tempeste di vento che ne sono il vettore di distruzione e poi l’interfaccia selvaggia che mette in stretta relazione zone altamente abitate e aree non sviluppate, contraddistinte da vegetazione secca, dove gli incendi attecchiscono facilmente, spostandosi velocemente, utilizzando le aree civilizzate come abbondanti fonti di carburante. E, ancora, la scarsa manutenzione delle infrastrutture energetiche e le case come combustibile per gli incendi, dal momento che nella regione un numero elevatissimo di abitazioni sono in legno, spesso senza efficaci protezioni ignifughe.
Secondo Davis, ciò che rende speciale Los Angeles “è la sua miscela unica di pericoli naturali e contraddizioni sociali, che finiranno per erodere i vantaggi comparativi dell’economia della California meridionale”. Forse Los Angeles non crollerà – come in queste ore si affanna ad assicurare la sindaca Karen Bass – però vacillerà tra morti e angoscia, in una serie di incontri sempre più ravvicinati con disastri d’ogni tipo, decretando per sempre la fine dell’età dell’oro della California meridionale. “L’urbanizzazione dell’area di Los Angeles ha avuto luogo durante uno degli episodi più insoliti di benignità climatica e sismica”, spiega Davis. Ma “il suo paesaggio incorpora un decisivo quoziente di sorpresa e racchiude un impatto ecologico difficile da fronteggiare”. Non facciamoci ingannare dalla gentilezza degli ultimi anni, avverte. La LA del Ventesimo e Ventunesimo secolo è stata “edificata sulla fortuna del giocatore d’azzardo”.
Inoltre la risposta a questi pericoli ambientali è stata improntata a un negazionismo sostenuto dai media e dai miti che sanno generare, propagandando la visione di LA come terra di sole e facile benessere e oscurando, per ragioni di profitto, le questioni della costosa riprogettazione e adeguamento della struttura delle città per adeguarne i livelli di protezione. Davis la chiama “amnesia del disastro”, documentando come influenti proprietari immobiliari della Malibu, adesso ridotta in cenere, abbiano alimentato “l’isteria sugli incendi”, diffondendo voci non verificate su piromani e complotti, e incoraggiando strategie di contenimento del fuoco scientificamente screditate ed ecologicamente disastrose.
Intanto non piove a Los Angeles da trecento giorni. Non c’è abbastanza acqua per far fronte agli incendi a Pacific Palisades, Altadena e Sylmar e Donald Trump ha accusato il governatore dello stato, Gavin Newsom, di non aver previsto una situazione del genere, distribuendo sufficienti quantitativi di acqua alle aziende agricole e alle città per proteggersi. Gli idranti sono asciutti e la corrente elettrica è stata interrotta, spesso intenzionalmente, per eliminare la minaccia di scintille, mentre i fumi tossici si diffondono, i vigili del fuoco ammettono di “non essere preparati per questo disastro diffuso” e l’aria è tagliata da milioni di tizzoni ardenti capaci di volare per chilometri, trasmettendo il fuoco di casa in casa, frullati dai violenti venti di Sant’Ana che scendono dalle montagne. Basta una finestra aperta o una fessura e il disastro è fatto, nell’epidemia del fuoco.
Ora Los Angeles prova a resistere alla sua agonia. Del resto, come già anticipava Davis trent’anni fa, “la narrativa catastrofica di Los Angeles” e l’oscuro rapimento con cui la distruzione di LA ricorre nella letteratura e nel cinema, sembrano emblemi del crollo della fede americana nel “destino manifesto”, assumendo piuttosto la forma di “simboli distopici delle disuguaglianze dickensiane e delle contraddizioni razziali”. La brama di disastro di Hollywood è il riconoscimento di queste piaghe sociali: la città americana contemporanea allucina se stessa.