medio oriente
Gli attori, le fasi e i rischi dell'accordo tra Israele e Hamas
I negoziati con Hamas mettono Israele davanti alla paura di un momento Afghanistan per lo stato ebraico. Il tentativo di prevenire ogni errore sul futuro di Gaza per evitare il ritorno dei terroristi
Doha negli ultimi tempi non è stata la sede di accordi di successo e, mentre si dibatte sul futuro della guerra a Gaza, c’è un paragone che suona come un avvertimento e si insinua tra i commenti di opinionisti israeliani. A Doha venne negoziato e concluso l’accordo fra i talebani e l’Amministrazione americana di Donald Trump, che diede ai terroristi le chiavi per riprendersi Kabul e agli americani i presupposti per il ritiro disastroso che poi fu portato a termine da Joe Biden. A Doha gli americani, con la mediazione qatarina, conclusero un accordo farlocco, destinato a chiudersi con un collasso che portò alla chiusura dell’Afghanistan dentro la bolla islamista, al ritorno dei talebani e delle loro leggi liberticide: il ventennio americano fu una parentesi, a Doha venne sancito, senza dirlo, che l’Afghanistan avrebbe dovuto dimenticare tutto. Israele ha negoziato in Qatar per il ritorno degli oltre novanta ostaggi che sono ancora prigionieri nella Striscia di Gaza e l’accordo dovrebbe portare al cessate il fuoco, nonostante il mantenimento di alcune posizioni dell’esercito per evitare che Hamas ricostruisca il suo controllo militare. Sul tavolo c’è un piano in più fasi, che permette in un primo momento il ritorno di trentatré ostaggi tutti vivi, compresi i soldati israeliani feriti, e la liberazione di un numero di detenuti palestinesi delle carceri israeliane che potrebbe arrivare a tremila, molti dei quali condannati per terrorismo. Durante la prima fase di oltre quaranta giorni saranno negoziate le successive, in cui stabilire una tabella di marcia per la ricostruzione e permettere il ritorno della popolazione palestinese nel nord della Striscia. Nella seconda fase del piano dovrebbe scattare il cessate il fuoco definitivo, con il ritorno in Israele anche dei corpi di chi è stato ucciso il 7 ottobre ed è stato trascinato a Gaza senza vita o chi è morto durante la prigionia. La terza sarà la fase della ricostruzione ed è proprio questo il momento del rischio Afghanistan per Israele, che dovrà ritirare Tsahal dai corridoi Filadelfi, che divide la Striscia dall’Egitto, e Netzarim, che per sei chilometri taglia in due Gaza. Per evitare che Hamas torni – è abile veloce e soprattutto ha alleati, tra cui il Qatar – ci vuole un piano.
Il vuoto di potere in cui il gruppo non deve tornare deve essere riempito in modo rapido e l’attivismo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) in Cisgiordania contro Hamas e il Jihad islamico è il segnale del fatto che vuole essere presa sul serio per il futuro della Striscia. Israele non si fida dell’Autorità nazionale palestinese, ha già detto che non accetterà che Mahmoud Abbas, il leader dell’Anp, assuma il controllo di Gaza per due ragioni: è debole e quindi poco adatto a tenere il potere in modo saldo e arginare il ritorno di Hamas ed è inaffidabile. Gli americani hanno puntato tutto su Mahmoud Abbas, i sauditi, che potrebbero accollarsi il grosso dell’onere economico della ricostruzione, anche avrebbero accolto con favore il suo ritorno a Gaza. Israele dovrà accettare e anche in questo modo dovrà stare attento a evitare il rischio Afghanistan, ricordando che Ashraf Ghani era il presidente che avrebbe dovuto prendere in mano le sorti di Kabul, scappò via dopo il ritiro americano quando il suo esercito non si oppose all’avanzata islamista. Israele non ha torto quando dice che Fatah, il partito che governa l’Anp, era già stato cacciato da Hamas dalla Striscia e la storia potrebbe ripetersi e non si accontenta delle dimostrazioni di forza in Cisgiordania, delle operazioni nei campi profughi contro i terroristi portate avanti dall’Anp, ma dovrà accettare la presenza di un attore politico palestinese dentro Gaza.
In Israele l’idea di pagare un prezzo molto alto per liberare gli ostaggi è condivisa dalla maggior parte della popolazione. Il premier Benjamin Netanyahu ha acconsentito ad aumentare il numero di palestinesi che Israele è disposto a liberare per vedere tornare gli ostaggi. Non si sa se questi detenuti una volta liberi potranno tornare a Gaza, ma Israele dovrà tenere in considerazione che saranno una nuova minaccia per la sua sicurezza. Per liberare i detenuti palestinesi, Netanyahu deve sottoporre la decisione al voto del suo governo, due suoi ministri hanno già negato il loro sostegno: sono il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, che hanno parlato di “accordo immorale”. Il governo può andare avanti senza di loro, che però sono riusciti a portare dalla loro parte anche alcuni parlamentari del partito del premier, il Likud, il cui voto peserà quando la scarcerazione dei prigionieri sarà sottoposta alla Knesset, il Parlamento israeliano.
Nel febbraio del 2020, quando i talebani e gli Stati Uniti si accordarono sulla fine del conflitto, cercarono di accreditarsi come un movimento ormai diverso dal passato, pronto ad accogliere il futuro del nuovo Afghanistan. Era una recita, probabilmente simile a quella che i ribelli di Hayat Tahrir al Sham hanno messo in scena in Siria dopo essere riusciti a cacciare il dittatore Bashar el Assad. Hamas sta lavorando a una recita simile ma più ambiziosa e in questi mesi, mentre rifiutava qualsiasi accordo con Israele, cercava di accordarsi con Fatah per essere riconosciuto come attore politico. Il gruppo ha sempre giocato sulla sua divisione tra un’ala politica e una armata, che però perseguono lo stesso obiettivo contro Israele. Per diverso tempo ogni ala ha avuto due leader distinti, fino a quando il feroce architetto del 7 ottobre, Yahya Sinwar, non aveva sintetizzato tutto nelle sue mani. Sinwar è stato eliminato nell’ottobre dello scorso anno, il gruppo non ha più un capo ufficiale, ma mentre i leader all’estero avevano già accettato la bozza mediata per l’accordo, cercando di preparare il loro ritorno politico a Gaza, Mohammed Sinwar, fratello di Yahya, leader del gruppo nella Striscia, continuava a rimandare il momento della risposta.
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