il caso
Giornalisti italiani a lezione con la Cina (per la Cina?)
Il “corso di formazione” per giornalisti di venerdì scorso, alla Lumsa, aveva come discorso d'apertura quello dell’ambasciatore di Pechino in Italia. Un bel paradosso
Venerdì scorso all’Università Lumsa di Roma i giornalisti italiani hanno potuto partecipare a un “corso di formazione” gratuito, per il notevole ammontare di 10 crediti formativi (il totale da conseguire ogni anno è 60), in cui tra le diverse sessioni di “studio” l’ospite d’onore, l’ambasciatore cinese in Italia Jia Guide, offriva “una panoramica della situazione della Cina e dei rapporti con l’Italia”. Un “corso” a dir poco istituzionale, perché organizzato da “un gruppo di giornalisti del Tg1 Rai in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Lazio”.
Il corso organizzato alla Libera Università Maria Santissima Assunta, università privata d’ispirazione cattolica, aveva come titolo “Cina e Italia a 700 anni dalla morte di Marco Polo e 20 anni dal partenariato strategico globale”, il patto che ha di fatto sostituito la partecipazione dell’Italia al grande progetto strategico cinese della Via della Seta – firmato da Giuseppe Conte nel 2019 – cambiandone il nome ma non i contenuti. E forse l’iniziativa è direttamente collegata con il “piano di azione” firmato a luglio, a Pechino, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per il triennio 2024-2027, dove si legge che Italia e Cina “concordano di firmare al più presto un nuovo protocollo esecutivo della cooperazione culturale tra i due governi, che includa anche il settore dell’editoria”.
Di fatto c’era molta gente, venerdì, al convegno, tra Pier Ferdinando Casini (in qualità di presidente onorario del Forum Filantropico Italia-Cina) e il rettore della Lumsa, Francesco Bonini, grazie anche alla pubblicità e al numero di crediti offerti ai giornalisti. Ma nessuno ha sollevato la contraddizione di un discorso per formare i giornalisti italiani pronunciato dal massimo rappresentante di un paese che Reporter senza frontiere chiama “la più grande prigione per giornalisti al mondo”, con 44 giornalisti dietro le sbarre al 1° dicembre 2023. Perché con la leadership di Xi Jinping il controllo del Partito nei confronti dei media si è rafforzato ulteriormente, e la funzione dei giornali è per lo più quella di pubblicare la propaganda: nel 2023 è stato introdotto in Cina il corso obbligatorio sul “pensiero di Xi Jinping” per gli aspiranti giornalisti, e in ogni occasione il leader riafferma la necessità, per i reporter cinesi, di “rafforzare la propaganda” anche fuori dai confini nazionali. Pechino ci ha provato spesso anche con l’Italia: nel 2019 è stato firmato un contratto fra l’Ansa e l’agenzia di stampa statale Xinhua, poi revocato un anno dopo a seguito di diverse critiche – nell’accordo l’Ansa non doveva far altro che tradurre in italiano la Xinhua, megafono della propaganda di Pechino. Il contratto di Xinhua ora è in essere con l’agenzia italiana Nova. E a quello vanno aggiunti gli accordi di pubblicazione di inserzioni non indicate esplicitamente e allegati, una pratica che in Europa già da tempo molti giornali hanno smesso di seguire. Anche questo giornale ha subìto le intimidazioni di rappresentanti dell’ambasciata della Repubblica popolare in Italia.
Ma al convegno romano Jia Guide ha detto che “nell’èra dell’informazione, i media hanno un’enorme influenza nel colmare le differenze, rafforzare l’unità e promuovere la pace”, e poi ha aggiunto che servono a migliorare i rapporti bilaterali. “Quando mi hanno proposto questo corso, e l’ha fatto un caro collega, Ignazio Ingrao, corso che riguardava i rapporti tra Italia e Cina, non ho pensato a questa cosa qui, era una questione più diplomatica”, spiega al Foglio il presidente dell’Odg del Lazio, Guido D’Ubaldo, che qualche giorno prima era in piazza, a un sit-in per la liberazione di Cecilia Sala con lo slogan “il giornalismo non è reato”. Gli chiediamo se farebbe un corso per giornalisti, con tanto di crediti formativi, sull’Iran o sulla Russia, alla presenza dei rispettivi ambasciatori: “Bisogna vedere com’è contestualizzato”, dice D’Ubaldo, “se parliamo della difficoltà che incontrano i giornalisti italiani negli scenari di guerra potrei anche pensare di fare un corso, anche parlando con loro, il dialogo aiuta sempre, anche in situazioni così critiche”.
Eppure non c’è dubbio che la Cina sia nemica del giornalismo come si dovrebbe intendere nelle democrazie, e basterebbe guardare alla storia di Dong Yuyu, solo per fare un esempio, arrestato nel febbraio del 2022 e condannato a 7 anni di prigione per “spionaggio” (aveva pranzato con un dipendente dell’ambasciata giapponese a Pechino). Per non parlare della mano dura su Hong Kong, con l’editore Jimmy Lai in prigione per “sedizione” e un numero ancora impossibile da quantificare di arrestati, sotto processo, esuli, accusati di aver raccontato la verità sulle loro libertà negate. “Siamo abituati a vedere i rappresentanti della Repubblica popolare lusingare i giornalisti stranieri nel tentativo costante di trasformarli in armi di propaganda propria”, dice al Foglio Laura Harth, campaign director di Safeguard Defenders. “Pare aver funzionato molto bene nel caso dell’Ordine dei giornalisti del Lazio e Tg1. Dovrebbe essere ovvio ma tocca chiaramente ripetere che in Cina non esiste né il diritto di libera stampa, né la libertà di espressione o opinione. E non esiste una singola ragione per la quale un giornalista di un paese democratico dovrebbe prendere lezioni di giornalismo dalla Cina. Anzi, sarebbe al contrario opportuno che l’Ordine dei giornalisti organizzi corsi su come occuparsi di Cina resistendo a intimidazioni e minacce da parte dei funzionari (anche in Italia…)”.