Il film “Bucha” è un antidoto al cinismo trumpiano che ignora gli ucraini

Paola Peduzzi

La storia di Kostya e dei bambini che mentirono per vivere riporta al cuore della guerra: l’umanità che resiste alla brutalità russa, mentre il mondo sembra dimenticare la sofferenza di un popolo che difende la propria libertà

Come si chiama vostro padre? I tre bambini sul sedile posteriore di una Tesla bianca, al checkpoint russo tra Bucha e Kyiv, nei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina, tacciono. Il soldato russo ripete la domanda, minaccioso. Il più piccolo dei tre si sporge in avanti, dice: “Si chiama Kostya”. Se questo bambino non avesse mentito, se avesse detto il nome di suo padre e non quello dell’uomo alla guida della Tesla, sarebbero morti tutti, e probabilmente molti di più di quelli che sono stati uccisi dai russi in quel tratto di Ucraina appena fuori dalla capitale, perché Kostya non avrebbe potuto salvarli.

Kostya è Konstantin Gudauskas, la sua storia è raccontata nel film “Bucha”, che si spera sarà proiettato nelle sale italiane ed europee: il produttore Oleksandr Shchur dice al Foglio che è stato girato “mentre ancora suonavano le sirene ogni giorno, ma questo film è un’arma culturale contro la propaganda russa”.  “Bucha” è straziante e potente perché riporta  il dibattito sulla guerra alla sua essenza: i russi che ammazzano gli ucraini, e gli ucraini che si aiutano, si organizzano, si salvano. L’essenza della guerra sono le persone che la subiscono e che si difendono, anche se ormai questo elemento è uscito dai resoconti e dalle discussioni, complice  l’arrivo del trumpismo, che ha a cuore il potere e i leader, non i popoli e le persone. L’ossessiva ripetizione dell’obiettivo di “porre fine alla guerra” (come se finora invece gli ucraini avessero voluto continuarla, questa maledetta guerra che li ha decimati, impoveriti, segnati per generazioni) ha fatto sì che, mentre il conflitto viene declassato a un affare  regionale,  si facciano soltanto calcoli cinici su quanta terra ucraina lasciare a Vladimir Putin, dimenticando la differenza esistenziale tra vivere liberi in Ucraina o vivere sotto l’occupazione russa, sempre in Ucraina.

Konstantin Gudauskas è un cittadino kazako che è dovuto scappare dal suo paese perché accusato di essere un oppositore politico: è stato accolto in Ucraina come rifugiato, il governo ucraino ha aiutato anche altri suoi amici a scappare dai paesi in cui erano perseguitati. Quando l’esercito russo ha invaso l’Ucraina, Gudauskas, che aveva un business di auto elettriche, era a Bucha: l’intelligence di Kyiv lo ha chiamato e gli ha chiesto di restituire il favore, aiutando a evacuare prima la famiglia di un uomo dell’intelligence e poi altri abitanti di Bucha. Tu sei kazako, ti faranno passare, gli dice il suo contatto nell’intelligence, ed è vero – al primo checkpoint attraversato, il soldato russo dice: “Ma in Ucraina persino i kazaki guidano le Tesla!”, sintesi  dell’invidia che questi soldati hanno provato nel vedere che gli ucraini stavano meglio di loro, e questo li ha resi  feroci, vendicativi, razziatori – ma se al primo salvataggio il bambino non avesse mentito dicendo di essere figlio di Kostya, sarebbe finito tutto. Gudauskas ha raccontato che quello è stato il momento più terribile, e sì che nel film ne sono raccontati di ben più atroci, come la famiglia cui Kostya è costretto a dire di no perché ha l’auto piena: torno domani, ma domani sono tutti morti, bruciati vivi nella loro casa colpita da un missile russo; come la signora anziana che viene fatta spogliare per strada, per controllare che non abbia tatuato un tridente ucraino, che significa esecuzione immediata; come la crudeltà russa, esplicita e costante: c’è anche adesso, anche se preferiamo perderci tra i “tavoli del negoziato”, al momento inesistenti, invece che badare all’Ucraina, ai morti, ai  vivi, ai  salvati.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi