Banchieri in politica
L'ex governatore Carney si candida in Canada, seguendo una tradizione mediterranea
Il partito liberale canadese potrebbe essere guidato da un banchiere centrale. Un passaggio che non è usuale nel mondo anglo-sassone e che anche l'Italia ha sperimentato in forme simili
Dopo il bel Trudeau, molta forma e poca sostanza, il partito liberale canadese potrebbe essere guidato da un banchiere centrale. Si è messo in corsa, infatti, Mark Carney che ha governato ben due banche centrali, quella del suo paese, attraversando con abilità la tempesta della grande crisi finanziaria nel 2008-2009, e poi la Old Lady, la Vecchia Signora di Threadneedle street, insomma la banca d’Inghilterra. Non è usuale nel mondo anglo-sassone che un banchiere centrale diventi capo di un partito per conquistare, con il voto popolare, il posto di capo del governo. Ministri del Tesoro magari sì come Janet Yellen, economista accademica, governatore della Federal Reserve, segretario al Tesoro ancora in carica per due giorni, fino all’insediamento di Donald Trump. Diverso nei paesi del sud Europa, in Italia, in Grecia, in Portogallo dove Mário Centeno che gestisce la Banca centrale dal 2020 e prima è stato ministro delle Finanze, potrebbe diventare il prossimo leader del partito socialista portoghese.
Eppure l’agone della politica, la battaglia per acquisire voti, le feroci sferzate televisive, le facili promesse, i sorrisi stampati, l’imposizione delle mani (in fondo anche la democrazia borghese ha imparato dai re taumaturghi del medioevo), tutto ciò che caratterizza la lotta per il potere politico sembra lontano dalla cultura, dalla mentalità, dallo stile di un banchiere. L’Italia è il paese che più di altri ha sperimentato il passaggio tra banche, banche centrali e governi. Ma nessuno di coloro che ha attraversato la sottile e perigliosa soglia ha mai guidato un partito. A cominciare da Luigi Einaudi che dalla Banca d’Italia è passato al Quirinale, come poi è successo a Carlo Azeglio Ciampi. Liberale antifascista il primo, antifascista di Giustizia e Libertà (liberalsocialista) il secondo, ma entrambi al di fuori dalla politique politicienne. La banca centrale è stata (e lo è ancora) la culla di una genia di civil servant dalla forte preparazione tecnica e da una idea della politica come arte non del possibile (Einaudi fece l’impossibile sfidando anche gli strali degli americani vincitori), ma dell’utile e del giusto nella situazione data.
Ogni volta che si è creato un vuoto di leadership o una crisi dei partiti come negli anni ’90, è toccato al banchiere centrale scendere in campo. Guido Carli è stato a lungo governatore e ministro del Tesoro ombra (negli anni ’60 faceva coppia con il democristiano Emilio Colombo), prima di uscire definitivamente alla luce e firmare il Trattato di Maastricht (il 7 febbraio 1992) contro il parere di molti a sinistra, a destra e al centro, e contro gli interessi degli industriali (lui che era stato anche presidente della Confindustria) favoriti dalla lira debole e dalle continue svalutazioni. Ciampi a sua volta spinse per l’ingresso nell’euro con i primi, con la Germania e la Francia, superando l’avversione dell’allora capo della Fiat Cesare Romiti e la prudente perplessità del governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Le “porte girevoli” hanno portato al governo Lamberto Dini (centro-destra) e Tommaso Padoa Schioppa (centro-sinistra), fino adarrivare più recentemente a Mario Draghi (centrista-liberale) divenuto presidente del Consiglio con una larga coalizione.
I cosiddetti tecnici al governo non hanno dato sempre buone prove, dimostrando ancora una volta quanto sia vero il vecchio detto sul gap tra il dire e il fare, ma è difficile che abbiano provocato pasticci. In Grecia Lucas Papademos nel 2011 ha cercato di rimediare ai disastri dei suoi predecessori, compreso il socialista Giorgos Papandreou del quale era stato consigliere economico. Proprio in quegli anni Mark Carney, arrivato dalla Goldman Sachs, si è distinto per la sua mano ferma, ma anche per il contributo intellettuale offerto a proposito della difficile arte di gestire la moneta, e dell’amara medicina da ingoiare per uscire dalla crisi. Adesso si presenta senza promettere Canada First, anzi deve contrastare l’America First di Trump. “Cresciamo troppo poco, i salari sono troppo bassi, il governo spende troppo e investe troppo poco, le tasse sulla classe media sono troppo alte”, ha detto Carney nella sua città, Alberta. Non lacrime e sangue, ma rigore e politiche per la crescita. Carney critica lo stesso Trudeau, il quale si dimetterà formalmente il 9 marzo: al timone per dieci anni, soprattutto nel suo secondo mandato ha curato più la propria immagine che le sorti del paese. Il partito conservatore, guidato da Pierre Poilievre, conduce i sondaggi e i liberali inseguono. Se Carney diventa lo sfidante ha fino all’autunno per recuperare, forse troppo poco.