Israele fa i conti con il 7 ottobre: le dimissioni di Herzi Halevi

Micol Flammini

Il capo di stato maggiore dell'esercito scrive: il fallimento mi accompagna ogni giorno. Le responsabilità dentro Gaza e l'operazione "Muro di ferro" in Cisgiordania

Il ruolo di ramatkal (capo di stato maggiore) in Israele rimane appiccicato addosso, ci si può dimettere, ma si rimane ramatkal per tutta la vita. Herzi Halevi, ultimo ramatkal dell’esercito israeliano, si è dimesso oggi con una lunga lettera consegnata al primo ministro Benjamin Netanyahu e al ministro della Difesa Israel Katz. Il ruolo di capo di stato maggiore è della durata di tre anni, Halevi lo interromperà il 6 marzo, dopo due anni e due mesi di servizio e poco dopo lo scadere della prima fase dell’accordo per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza. Nella lettera di dimissioni ha scritto: “La mattina del 7 ottobre, sotto il mio comando, l’esercito ha fallito nella sua missione di proteggere i cittadini di Israele. La mia responsabilità per questo terribile fallimento mi accompagna ogni giorno, ogni ora, e mi accompagnerà per il resto della mia vita”. Subito dopo l’attacco dei terroristi di Hamas, Halevi era stato tra i primi a promettere le dimissioni non appena il paese fosse uscito dall’emergenza. Rimandare la discussione sulle colpe e le responsabilità, nei giorni successivi al massacro nei kibbutz del sud, era un mantra diffuso che ripetevano militari, politici, ufficiali dell’intelligence. Halevi, dopo averle annunciate,  ha trasformato le dimissioni in fatti, rivendicando però non soltanto i fallimenti, ma anche cosa Tsahal, sotto il suo comando, è riuscito a fare contro Hamas, contro l’Iran, contro Hezbollah e anche in Cisgiordania, dove oggi l’esercito ha lanciato l’operazione Muro di ferro nell’area di Jenin che si protrarrà per alcuni giorni con l’obiettivo di eliminare le infrastrutture e i depositi di armi in mano ai terroristi. 

 
La lettera di Halevi è lunga e accorata, sottolinea i fallimenti, ma non ha intenzione di presentare la sua carriera come una sconfitta: “L’esercito è stato in grado di rialzarsi e di condurre un’intensa campagna per oltre un anno e tre mesi su sette fronti. I successi militari hanno cambiato il medio oriente”. Tra i successi Halevi ha rivendicato anche l’accordo con gli ostaggi che non sarebbe stato possibile raggiungere senza gli sforzi contro Hamas, ma proprio sulla guerra dentro la Striscia pesa l’altra eredità del ramatkal che apre molte domande sulle decisioni  prese. Hamas esiste ancora nonostante il primo ministro Benjamin Netanyahu avesse promesso una vittoria totale, difficile da raggiungere. Tsahal in questi quindici mesi di guerra ha operato a Gaza per settori. La scelta di Halevi e di Yaron Finkelman, il capo del comando meridionale, anche lui dimissionario, è stata quella di insediarsi in un’area, eliminare le infrastrutture in mano ai terroristi, distruggere i tunnel identificati, poi ritirarsi salvo tornare per azioni mirate e  scoprire che Hamas ricominciava a ricostituire il suo controllo. Questo sistema è stato usato in tutte le zone di Gaza, la rete di tunnel di oltre 700  chilometri quadrati non è stata eliminata nella sua interezza, i miliziani sono ancora capaci  di riformare, seppur in forma più fragile, un controllo militare sul territorio che Tsahal abbandonava. Durante la guerra, sono stati gli Stati Uniti i primi a mettere in dubbio questo metodo, sottolineando che l’unico sistema per spezzare il controllo di Hamas era mantenere il territorio il più a lungo possibile. Halevi ha deciso di iniziare l’operazione a Gaza partendo dal nord, quando già si sospettava che alcuni ostaggi fossero stati portati a Khan Younis e che Rafah, la principale città del sud della Striscia, con la sua vicinanza al corridoio Filadelfi che divide  Gaza dall’Egitto e che ha funzionato come serbatoio di contrabbando per anni, ospitasse brigate di miliziani ben armate. Anziché lanciare un’operazione simultanea contro le città considerate roccaforti, Tsahal ha frammentato l’attacco, rendendo quindi i movimenti dei soldati più prevedibili e lasciando a Hamas il tempo di spostarsi. 

 
Halevi risponderà dei fallimenti del 7 ottobre, le decisioni prese a Gaza faranno parte di un altro capitolo della resa dei conti interna a Israele. Prima di lui, soltanto un altro ramatkal aveva rassegnato in anticipo le dimissioni, era Dan Halutz, che lasciò un posto per cui di solito si chiede un prolungamento in seguito alla guerra del Libano del 2006. Halevi è stato il primo osservante a ricoprire sia  la carica di capo dell’intelligence militare sia  di capo di stato maggiore, rompendo la tradizione dei laici a capo dell’esercito. Viene da una famiglia religiosa, è nato a Gerusalemme e se sua madre vantava almeno quattordici generazioni di gerosolimitani in famiglia, suo padre era fuggito dalla Russia con i  genitori per contribuire alla fondazione dello stato ebraico. Quando  nacque ricevette il nome di suo zio Herzl (Herzi è il diminutivo) morto durante la guerra dei Sei giorni, e quando toccò a lui fare il servizio militare, decise che avrebbe trasformato  Tsahal nel suo lavoro. Non si sa chi lo sostituirà, sul successore si affollano nomi come quello di Eyal Zamir – più volte sul punto di assumere il comando supremo dell’esercito per vedersi poi superare sempre da altri – come si affollano dubbi sulle sue tensioni  con il premier Netanyahu e con il nuovo ministro della Difesa. Halevi aveva un ottimo rapporto con Yoav Gallant, che ha rassegnato le dimissioni per i suoi contrasti con il premier. Halevi non è stato il primo a dimettersi dopo il 7 ottobre, ma la sua decisione è più potente delle altre e porta l’attenzione sui tanti che dopo l’attacco di Hamas avevano promesso: si vince uniti, poi si fanno i conti. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)