Tendenza-carbone. E altre mode trumpiane
Non perdetevi dietro il cappellino maleducato di Melania Trump. I problemi (e anche i gongolamenti inconfessabili) per la moda mondiale sono altri, e principalmente uno: il via libera sul clima
Non perdetevi in quisquilie attorno al cappellino a tesa rigida di Melania Trump, un ”boater” come si dice in gergo negli Usa, un gondoliere, sebbene si sia dimostrato davvero utile per respingere il bacio di prammatica del marito e per nascondere gli occhi, specchio dell’anima: due ore di cerimonia nelle quali il mondo ha visto un brutto cappello e due mascellone aguzze che spuntavano sotto, un livello di maleducazione davvero mai raggiunto prima nemmeno dalla donna più priva di stile del globo terracqueo nonostante tutti i soldi spesi per ottenerlo, perché il cerimoniale le imporrebbe di mostrare il viso al pubblico, possibilmente ben pettinata e con una toque, un tamburello, un piripacchio qualunque in testa ma che non le nasconda il volto - ci sono schiere di reali da secoli, e perfino una figliastra oggi che le hanno mostrato come si debba fare, il copricapo di Ivanka era perfetto - e lei niente, per ripicca o per tigna o per qualunque altro motivo. E non sdilinquitevi nemmeno per la sciarpina rosa di Usha Chilukuri Vance infilata nella cintura del cappotto perfetto nel taglio e nel colore, sapevamo che fosse di Oscar de la Renta senza che ci venisse detto perché negli Stati Uniti c’è solo lui, il brand intendiamo visto che il fondatore è scomparso da un decennio, in grado di mostrare la differenza fra lo stile vero e la sovrabbondanza di bottoni tape à l’oeil, che danno nell’occhio al popolo come già sapeva Francesco I che appunto aveva voluto una cotta ricoperta di bottoni.
Alleluja, nei dintorni della Casa Bianca c’è qualcuno che oltre ad aver svolto una professione vera, come Usha Vance, possiede educazione, gusto ed eleganza, perché a chiunque ne sia privo, il dettaglio sofisticato della sciarpa non sarebbe mai venuto in mente, oltre ai begli orecchini, alla fronte scoperta e al volto sorridente e gentile, quel volto così lontano, duole dirlo, da quello segnato, amaro, indurito dalla vita e i suoi rovesci della madre di Vance, elegia americana. Usha Vance, trophy wife sul serio, laureata a Cambridge e a Yale, figlia di immigrati indiani benestanti, ma simbolo di integrazione.
La moda mondiale ha tirato un sospiro di sollievo perché almeno una rappresentante dei suoi valori, della linea “diversity&inclusion”, nella nuova amministrazione Usa doveva esserci, qualcuna che faccia piacere vestire senza imbarazzi, benché sia stato evidente che, visti i rapporti del patron Bernard Arnault con Trump, i brand del gruppo Lvmh non abbiano potuto prendere le distanze dalla first lady come accadde alla prima cerimonia, nel 2017, quando tutti i grandi nomi si rifiutarono di vestirla. L’abito di Hervé Pierre, stylist francese naturalizzato americano, indossato dalla first lady ai vari balli inaugurali, con quel nastro nero svolazzante a sottolinearne la scollatura e lo spacco, è il tipico abito tanto originale dello stilista che non fa parte della fashion community che conta e che fa tendenza; quello della “second first” Usha Chilukuri Vance, firmato da Gaurav Gupta, indiano, sì. Non troppo “flashy”, vistoso, in un punto di blu pallido raffinato, delizioso proprio attorno alla scollatura, con tutte quelle finte piume stilizzate.
Nel giudizio generale, non fatevi però e comunque distrarre dalla presenza di Arnault alla cerimonia di inaugurazione, al pranzo e dovunque dovesse farsi vedere in queste ore, peraltro seduto davanti alla premier Giorgia Meloni. Il patron di Lvmh ha fabbriche negli Stati Uniti, ricorderete quando nel 2019 Trump si precipitò a inaugurare uno stabilimento di calzature in Texas, nella contea di Johnson, e dà lavoro a qualche decina di migliaia di dipendenti, sebbene le sue linee di prima fascia siano realizzate in Francia e in Italia: se la mano pesante annunciata dal nuovo presidente Usa sui dazi sarà più leggera, forse gli dovremo qualcosa, ma sulle politiche di comunicazione e di marketing, state pur certi che la famosa fashion community si guarderà bene dall’adottare la linea “two gender” preconizzata da Trump, o la posizione durissima sull’inclusione. Pur esclusiva nei prezzi e nello stile, la moda vive di inclusione e mescolanza di generi, atteggiamenti, competenze, e decenni di battaglie non verranno abbandonate per un pugno battuto sul tavolo sotto quel gran ciuffo cotonato: per questo anche la presenza, pur defilata, di una donna come Usha Vance è una garanzia, e state pur certi che al momento buono diventerà utile.
La vera, inconfessabile gioia della fashion community, e in particolare dei suoi azionisti, dopo le prime dodici ore di governo è però un’altra, ed è l’uscita dall’Accordo di Parigi del 2015. Si erano già avuto le prime avvisaglie, le prime sensazioni effettive del cambio di rotta un mese fa, quando nessuno ha speso una parola sull’immane rogo che ha cancellato il mercato dell’abbigliamento di seconda mano di Accra, in Ghana: decine di migliaia di metri quadrati di bancarelle, migliaia di persone senza quel lavoro pur miserrimo, strappato a montagne di stracci che ne deturpano le coste e sulle quali spendiamo sempre parole dolenti, ben sapendo di essere noi ad alimentarle ma senza voglia di fare alcunché per ridurle. Per un giorno intero, hanno bruciato le prove del nostro over-consumption, le vestigia delle schifezze di poco valore e durata ancora minore di cui ci ingombriamo l’armadio fino a quando, stanchi, annoiati, le infiliamo nel primo cassonetto che ci capiti a tiro. È arrivato il momento di ammetterlo: i pezzi pensosi, le ricerche sui “giovani che sono attenti al clima”, sono belle cose, ma corrispondono a una realtà minima, di scarsa rilevanza, perché in caso contrario non ci si spiegherebbe come mai massacratori del pianeta e del lavoro come Temu e Shein non vengano boicottati, come dovrebbero, ma abbiano anzi fatturati da capogiro.
La verità è che la crisi del lusso sta convincendo decine di aziende a spingere in fondo alla lista delle priorità l’agenda della sostenibilità, che costa e non porta i risultati attesi, perché doveste chiedere a qualunque proprietario di boutique, vi direbbe che la sostenibilità non è mai una motivazione di acquisto. Abbiamo normative europee che impongono cambiamenti e l’adozione di pratiche sostenibili entro cinque anni da oggi, altre sono già entrate in vigore. Resta da vedere come Bruxelles farà muro davanti all’onda d’urto della nuova “tendenza-carbone” che arriva da Washington e risolve tanti, tanti problemi. Finché dura.
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