(foto EPA)

Vendetta e controllo

Alleati ridimensionati e sfere d'influenza. L'orizzonte di Trump è pre novecentesco

Vittorio Emanuele Parsi

 La democrazia è una teoria del potere limitato, al contrario di quanto vorrebbe il neo presidente degli Stati Uniti. I messaggi e gli obiettivi del suo discorso

Donald Trump, almeno a parole, è partito col botto, facendo tutto il possibile per accreditare l’idea che, con lui al comando, la musica cambierà radicalmente: cose già sentite anche da noi, intendiamoci, ai tempi del varo dei governi Conte I e Meloni, senza che poi la realtà le confermasse più di tanto. Però qui stiamo parlando del presidente degli Stati Uniti che, dopo quattro anni di soffertissimo esilio (almeno nella sua distorta percezione), torna alla Casa Bianca assetato di vendetta e convinto che questa sia l’occasione buona per trasformare radicalmente e in maniera permanente la democrazia americana.

 

Nelle parole di Trump, persino quando evoca la colonizzazione di Marte e il radioso futuro, la nuova età dell’oro che attenderebbe l’America sotto la sua presidenza, il tempo prevalente è il passato, il ritorno alla Gilded age, il nome che nella storia americana copre il periodo tra il 1870 e il 1901, che si inaugura con la ricostruzione successiva alla Guerra civile e si chiude con la fine della presidenza McKinley. Non per caso, questo presidente, ucciso da un anarchico all’inizio del suo secondo mandato, è stato l’unico citato da Trump nel suo discorso inaugurale. Si tratta del presidente che ha concluso l’espansione territoriale americana, ponendo fine alla presenza spagnola nel continente americano e comprando le Hawaii dalla Danimarca. Ma è anche l’età dell’oro per i “robber barons”, i grandissimi capitalisti dello sviluppo legato alle ferrovie, al primo grande industrialismo, al petrolio… che riuscirono a controllare la vita politica fino alla reazione populista e al primo esordio della “progressive era”.

 

Tornare all’Ottocento, all’epoca precedente all’avvio del cosiddetto “secolo americano”, non significa certo rinunciare al ruolo americano nel mondo, ma piuttosto esercitarlo nel nome del più ristretto, esclusivo e orgogliosamente egoistico interesse nazionale degli Stati Uniti, senza l’impiccio di quell’internazionalismo liberale che ha rappresentato la cultura politica che lo aveva disegnato e reso possibile. Quella cultura, nella visione di Trump e della nuova destra ultraconservatrice, è la principale responsabile del decadimento della grandezza e della stessa “identità americana”, ne ha minato la forza e la coesione interna e ha permesso ai nemici esterni di portare la minaccia addirittura nel giardino di casa. Occorre quindi riprendere il controllo del proprio emisfero, nuovamente contendibile a un secolo dalla proclamazione della “dottrina Monroe” (l’America agli americani!), questa volta non a opera delle vecchie potenze coloniali europee ma della nuova Cina di Xi Jinping, che si è infiltrata nella gestione delle istallazioni portuali del Canale di Panama, che fa lo stesso in Groenlandia e che cerca sponde amiche nel cono sud. E’ un’America, quella di Trump, che mentre aspira a una nuova grandezza, rincorrendo una visione di progresso quasi positivista, deliberatamente ignora tutte le implicazioni che nel corso degli ultimi decenni credevamo fossero divenute un patrimonio culturale comune dell’umanità, ovvero la consapevolezza che le risorse del pianeta non sono infinite, così come è sempre più vulnerabile il suo stato di salute: preoccupazioni che sono espresse al massimo livello nella questione del mutamento climatico.

 

Se l’interesse nazionale americano lo richiede per battere sfidanti e concorrenti, si proceda quindi a trivellare ovunque di gran lena e a conferire nuovamente pieno futuro ai motori a combustione interna. C’è una contraddizione in questo atteggiamento verso la ripresa di un legittimo orgoglio produttivista. Si magnificano le acquisizioni scientifiche e tecnologiche che ci consentono di estrarre risorse a profondità e con procedure appena ieri inimmaginabili, di arrivare un giorno a colonizzare Marte (“rosso pianeta, bolscevico e traditor…”), di impiegare i prodigi dell’intelligenza artificiale e il moltiplicatore di ricchezze delle valute elettroniche, ma si rifiutano, quasi fossero superstizioni o invocazioni del malocchio, i moniti che gli stessi scienziati lanciano con monotono e preoccupato sgomento sui rischi di un progresso non governato. In questa visione pre novecentesca del mondo e del futuro degli Stati Uniti non stupisce che accanto al ridimensionamento del ruolo degli alleati, torni la legittimazione delle sfere di influenza, che gli Stati Uniti accettarono di malavoglia persino nella fase più complicata della Guerra fredda, per denunciarle già ai tempi degli Accordi di Helsinki (a metà degli anni Settanta!), un fatto che costituisce un oggettivo regalo a Vladimir Putin e un siluro lanciato contro l’Unione europea che, del resto, è nata e ha prosperato all’interno dell’ordine internazionale liberale postbellico a guida americana. Mentre è assai meno coerente che si persegua una politica che nel nome del cosiddetto realismo – termine che copre malamente una miopia gravida di conseguenze – espelle dal suo campo visivo ogni dimensione etica e di empatia: questo sì un tradimento verso lo spirito dei Padri fondatori. I quali anche avrebbero molto da dire nel vedere l’imbarazzante concentrazione di milionari al governo della Repubblica che fu di George Washington, John Adams e Thomas Jefferson, uno spettacolo che rende meno eccentrico il coro di oligarchi che fa da contorno all’autocrate russo. 

 

Si è fatto un gran chiacchierare delle allegorie classicheggianti di Musk e della sua ossessione per un risorgente impero americano sulle ceneri di quello romano. Ho parecchi dubbi che il sogno kitsch del miliardario sudafricano possa ripetere tanta grandezza, ma certo già ora la decadenza civica della repubblica stellata ricorda quella dell’antica repubblica capitolina, mentre del successivo impero ha già riprodotto e legittimato i giganteschi dislivelli di ricchezza. Sembra uno scherzo del destino, ma mentre assistiamo alla crisi del politico, vediamo trionfare la dimensione del potere, di un potere che si fa pervasivo e protagonista in molti ambiti, diversi da quelli istituzionali – dalla finanza alla tecnologia, dall’informazione alla creazione di contenuti – ma non per questo si diluisce: anzi si presenta sempre più concentrato e lascia noi con un numero via via minore di strumenti per controllarlo. In fondo Elon Musk incarna tutto questo. Non siamo forse al tramonto della democrazia ma se quest’ultima, nella sua versione liberale, costituisce innanzitutto una teoria del potere limitato, siamo allora di fronte a una sfida inedita e dall’esito altamente incerto.

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