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L'editoriale dell'elefantino

Ci vuole un quid di demagogia per difendere la democrazia liberale

Giuliano Ferrara

Culto del popolo e del capo, gruppi oligarchici controllati e incorporati nel sistema: con Trump si prospetta un nuovo regime. Non è detto che finisca in tirannia, e il laboratorio Italia può insegnare qualcosa

Il caso Trump a occhio mi pare molto serio e allarmante, perché è un tentativo di regime change dalla democrazia liberale e costituzionale alla democrazia demagogica. Non parlo di oligarchia perché le oligarchie ci sono sempre, figuriamoci quelle del denaro della cultura della tecnologia, e spiace per Joe Biden ma l’establishment è di per sé un insieme di oligarchie. La democrazia demagogica si esprime con il culto del popolo e del capo, afferma la parte (la maggioranza) per il tutto, comprende gruppi oligarchici ma li assoggetta o almeno li controlla mentre li incorpora nel sistema demagogico riducendo il loro gioco pluralista e conflittuale, che l’establishment preserva per l’essenziale, e per questo in genere il regime che in America e nel mondo sta celebrando potenti successi sfocia in una rappresentanza distorsiva che è l’uomo della provvidenza, il salvatore della nazione, cioè il più capace e fortunato dei demagoghi. Che dalla democrazia demagogica (o populista) si passi alla tirannia o al totalitarismo non è detto, possibile ma non certo. Dipende dal funzionamento, anche se insidiato e ridotto, delle garanzie dello stato di diritto, dalla libertà di stampa (cosa diversa dal free speech demagogico che è il gemello simmetrico del wokismo cancella-culture e del politicamente corretto: entrambi dilagano sui social), dal ruolo dei parlamenti, dalla sopravvivenza di una società civile e dei partiti attiva e non intimidita. 

 

Siccome opinionisti e guru di parte democratico-liberale si interrogano senza sosta su come difendere quel sistema politico moderno costruito nella battaglia contro nazionalismi, isolazionismi, sovranismi estremistici, identitarismi, imperialismi coloniali, democrazie dirette o illiberali, e sopra tutto fascismi e comunismi, bisogna provarsi a dire qualcosa. In America l’ultimo tentativo di combinare democrazia e patriottismo demagogico-imperiale, con l’unilateralismo libertario dell’American Century, è stato quello del programma neoconservatore, i famosi “liberal assaliti dalla realtà”, come diceva Irving Kristol. Ma l’Italia è da questo punto di vista un laboratorio politico notevole, e sono secoli che qui si fanno sperimentazioni di rilievo. 

 

Per limitarci all’orizzonte dell’Italia unitaria cito il trasformismo, il fascismo, la democrazia costituzionale dei partiti, che fu sepolta dalla magistratura blindata nel 1992 ed ebbe un revival dopo la sconfitta dell’effimero “governo del contratto” Salvini-Di Maio, la soluzione tecnocratica e presidenziale (Monti, Draghi), il populismo mite di Berlusconi, di Renzi e della destra di governo di Meloni. Gli ultimi tre demagoghi citati si sono inscritti, anche nei momenti conflittuali più accesi, nella categoria della demagogia che si fa istituzione, che rispetta i vincoli della Costituzione, che alimenta un decente culto del capo, spesso intriso di ironia e autocontrollo, e non evade mai dal quadro strategico europeo e occidentale nel cui solco l’Italia si muove dai tempi di De Gasperi, figuriamoci. Ma sono casi in cui la demagogia nasce dall’esclusione dall’establishment, per quanto da noi sempre precario, affascina e si conquista il consenso necessario a governare, governa con errori marchiani e realizzazioni importanti e blandamente trasformative (una serie di riformismi), sbocca in un di più di stabilità e di alternanza che ci ha consentito di fare passi avanti senza stravolgere il regime costituzionale e infiammare il paese, qualunque cosa ne dicano i contro-demagoghi ideologici (che sono demagoghi anche loro). Qui i forconi o i gilet gialli o i proud boys o gli AfD non hanno mai avuto il momento Maga, solo l’esperimento archiviato di un comico annoiato di sé ha rischiato per un momento di strabordare. 

 

Tiro le somme rapidamente. La democrazia liberale, che ha perso progressivamente la legittimazione nata nel Dopoguerra e rinsaldata dalle costrizioni della Guerra fredda, oggi è in pericolo per ogni dove perché le manca una demagogia mite, uno spirito di rinnovamento sorvegliato o di restaurazione non ideologica e soavemente simbolica, fa lo stesso, che sono strumenti per essere competitivi con la demagogia hard-core, quella che infantilizza i cittadini, li raduna in masse indistinte frustrate e rancorose, e genera un culto del capo molto diverso dal sorriso a cinquantaquattro denti di Berlusconi, con la sua ironia e autoironia, e da certe felici inconcludenze o da certi equilibrismi mainstream e manovrieri di Renzi e Meloni. 

 

Il problema non è principalmente ricominciare a stare dalla parte del popolo, nel popolo, tra le classi vulnerabili o impoverite del ceto medio, men che meno in un territorio che non esiste più se non virtualmente; il problema è avere leadership capaci di essere la voce demagogica e democratica del popolo, che da tempo immemorabile chiede pane e show, panem et circenses. Di pane in questi decenni le democrazie liberali ne hanno distribuito a sufficienza. Lo show lo hanno lasciato interamente alle demagogie illiberali. Farsi infilzare come espressione dello status quo, dell’ancien régime, è esiziale. Per difendere la democrazia liberale ci vuole un quid di demagogia oratoria e uno stile di leadership che sia competitivo con quello dei becchini di quel sistema. Un solo esempio, che dovrebbe essere tanto più chiaro in epoca trumpiana di rimpatri di massa, chiusura delle frontiere e minacciato uso dell’esercito a Chicago e New York: senza la demagogia spudorata e iperbolica del blocco navale, agitata per anni da Fratelli d’Italia, forse non avremmo oggi il rientro sorvegliato dalle follie dei porti chiusi di Salvini, e il tentativo di inserire in un quadro europeo accettabile, nonostante gli sbaciucchiamenti con Orbán e Trump, le politiche meloniane di contrasto civile all’immigrazione illegale incontrollata. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.