A Damasco due uomini stendono il pane appena sfornato (foto Getty)

pane e libertà

Dopo avere deposto il regime, in Siria è ora di sfamare il popolo

Luca Gambardella

Nei mercati tornano le banane del Libano, i limoni della Giordania, gli snack dagli Stati Uniti. La farina dei russi è stata sostituita da quella ucraina, ma le sanzioni rallentano il ritorno alla normalità

Poco prima del tramonto, ai bordi di alcune strade di Damasco, capita di vedere uomini, donne o bambini che dispongono il pane appena sfornato sui cofani delle macchine parcheggiate. Lo adagiano ordinatamente per farlo freddare e venderlo ai passanti. Si piazzano poco lontani dai forni, presi d’assalto da centinaia di persone che formano file interminabili. Questo mercato nero del pane, a cui si rivolge chi può permettersi di pagare prezzi maggiorati pur di evitare attese tanto lunghe, è una di quelle zone d’ombra che meglio raccontano la Siria post Assad. “Pane, libertà e dignità”, urlavano le piazze arabe nel 2011. Oggi, a distanza di 13 anni, a Damasco si tenta di non tradire quello slogan, ma a che prezzo. Sugli scaffali dei supermercati sono finalmente comparsi i primi prodotti americani, gli snack, le patatine. Lo stesso vale per quelli turchi, che per la prima volta dal 2011 non sono più limitati al consumo di Idlib e dintorni, ma arrivano fino al resto del paese. L’apertura ai mercati internazionali è una delle principali conquiste della nuova Siria. Bashar el Assad aveva tentato di lanciare una sua versione di sovranismo alimentare, che nei piani del dittatore avrebbe dovuto affrancare il paese dalla dipendenza dal mondo esterno. Si trattava di dimostrare all’occidente che lo sanzionava che l’egemonia degli Assad non si sarebbe piegata. Secondo questa illusione presuntuosa, tutto poteva essere prodotto in patria, compresi snack e bevande gasate, frutta e carne. Al limite, ciò che la Siria non poteva garantirsi in autonomia sarebbe arrivato dall’Iran o dalla Russia, gli angeli custodi del regime. Ora che il regime non c’è più, questo piano scellerato ha lasciato un segno indelebile sulla pelle dei siriani. Secondo il World Food Program (Wfp), l’economia in 13 anni di guerra civile è crollata dell’84 per cento, mentre il 90 per cento della popolazione è al di sotto della soglia di povertà. Oltre la metà dei siriani vive con meno di 2 dollari al giorno e 12,9 milioni di persone sono vittime di quella che le Nazioni Unite definiscono “insicurezza alimentare”, che significa non avere idea di come e dove reperire il prossimo pasto. La Siria di Ahmad al Sharaa parte da questi numeri impietosi, ma i primi segnali sono positivi. La valuta, innanzitutto. La guerra aveva indotto una svalutazione della lira tale che si è costretti a circolare ancora oggi con pacchi di banconote di taglio infinitesimale rispetto al loro potere d’acquisto e per comprare qualsiasi inezia ci si sfila dalle tasche  mazzette di decine di banconote.  Persino le botteghe che vendono shawarma sono dotate di contabanconote automatici per  velocizzare il pagamento di un pasto veloce. 

Ora le cose iniziano faticosamente a migliorare. Se con Assad un dollaro equivaleva a 22 mila lire, ora ne servono 13 mila. Il rafforzamento della valuta significa ossigeno per le importazioni, che ora sono un po’ meno care rispetto ai tempi del regime e questo ha facilitato il ritorno dei prodotti stranieri a prezzi più accessibili. Poi ci sono le bancarelle di frutta e verdura a raccontare come le cose vadano verso un lento ma deciso miglioramento. Sono tornati i limoni della Giordania e le banane del Libano. Ma anche i manghi e i kiwi, che durante il regime erano quasi scomparsi, e quei pochi che c’erano erano carissimi. Con Assad, servivano quasi 55 mila lire per acquistare un chilo di banane, quasi 4 euro, il doppio del budget giornaliero di milioni di siriani. A meno di due mesi dalla caduta del dittatore, i prezzi sono calati di un quinto, mentre per ananas e patate il costo è calato di un quarto. Anche i prezzi dei limoni sono diminuiti. Per farsi un’idea, prima del 2011 bastavano 20 lire siriane per acquistarne un chilo, mentre con la guerra il prezzo ha raggiunto quota 10 mila lire. 

Uno dei motivi per cui il costo dei beni essenziali è diminuito è la scomparsa dei corpi intermedi e delle milizie assadiste, che con la loro dissoluzione hanno fatto crollare anche il gigantesco sistema di corruttela che teneva insieme i pezzi del regime. Durante l’èra di Assad, qualsiasi prodotto agricolo arrivava dal contadino al consumatore finale solo dopo una trafila interminabile di checkpoint militari e tangenti da versare all’esercito. La temibile Quarta divisione delle Forze armate, quella comandata da Maher el Assad,  fratello di Bashar, era famosa per sequestrare gran parte dei carichi di generi alimentari trasportati sui camion, in cambio della garanzia del libero passaggio. In questo modo, il carico diminuiva al punto da costringere produttori ed esercenti ad alzare i prezzi.

Nonostante il sistema di corruzione assadista sia venuto meno, per Sharaa resta la sfida più grande, quella di dare risposte concrete ai siriani, che dopo avere assaporato il sapore della libertà ora hanno voglia di uscire da oltre un decennio di stenti. Il suo ministro per il Commercio interno, Maher Khalil al Hasan, si ritrova a occupare una delle cariche più scomode del governo, perché a lui spetta trovare il cibo necessario a sfamare i siriani. Da quando si è insediato, le tasse doganali sono crollate del 60 per cento, ma non è abbastanza per rilanciare le importazioni, come dimostrano le file di persone fuori dai forni per accaparrarsi un po’ di pane. In Siria, ma lo stesso vale per tutta la regione, il pane era e resta la cartina al tornasole dell’efficienza del potere, la linea rossa non  trattabile. Lo sapeva bene Assad, che nonostante le difficoltà in cui versava l’economia del paese non aveva mai fatto mancare i sussidi. Un chilo di pane costava 400 lire prima della caduta del regime, ora si arriva a prezzi altissimi, tra le 4 mila e le 9 mila lire al chilo, che in dollari equivalgono a quasi 70 centesimi, un’enormità per una famiglia siriana media. E questo nonostante anche il prezzo attuale benefici ancora di alcuni sussidi, senza i quali un chilo di pane arriverebbe a costare 12 mila lire, quasi un dollaro, cioè la metà del budget giornaliero per buona parte dei siriani. Sul costo del pane il governo di Sharaa rischia molto, ma l’aumento dei prezzi, per quanto doloroso, si è reso necessario per tentare di strappare il settore al mercato nero, che durante la dittatura si è ingigantito proprio grazie ai sussidi. Così, secondo i funzionari del governo, oltre 765 mila tonnellate di farina sono state sottratte al mercato nero, sebbene i potenziali costi sociali rischiano di essere enormi, almeno in questo primo momento. 

Il ministero del Commercio ha fatto sapere che la Siria dispone di riserve di farina sufficienti per appena 5 mesi. Se un tempo erano i russi a rifornire Assad di farina, molta della quale rubata agli ucraini, ora Mosca ha interrotto le forniture, un po’ per le incertezze sulle reali capacità delle nuove autorità siriane di potere pagare, un po’ per ovvie titubanze politiche. Così, oggi si stanno capovolgendo i ruoli e stavolta sono direttamente gli ucraini a inviare la farina ai siriani. A dicembre, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato l’invio di un primo carico di 500 tonnellate di farina, con la partecipazione del Wfp, in base al programma Grano dall’Ucraina, lanciato nel 2022 e che ha sfamato milioni di persone in tutta l’Africa. “Contribuiremo a tutti gli sforzi per la stabilizzazione della Siria – aveva annunciato Zelensky lo scorso 30 dicembre – Svilupperemo il programma cerealicolo in Ucraina in collaborazione con l’amministrazione siriana e con tutti i partner pronti a fornire sostegno”. Lo scorso 12 gennaio, il primo carico è arrivato in Siria con un quantitativo sufficiente a sfamare circa 167 mila persone. Siria e Ucraina progettano di approfondire questa collaborazione che potrebbe essere vitale per Damasco e il ministro degli Esteri di Kyiv, Andrei Sybiha, ne ha discusso con Sharaa in occasione della sua visita in Siria alla fine dello scorso anno. 

Se i presupposti lasciano ben sperare, resta ancora un ostacolo enorme da superare, che è quello delle sanzioni internazionali, che impediscono di approfondire qualsiasi forma di cooperazione commerciale con l’estero. In questi giorni, il ministro degli Esteri Asaad al Shaybani, si è recato a Davos per partecipare al World Economic Forum – una mossa che ha dell’incredibile se si considera il recente passato di al Shaybani, profondamente influenzato dall’estremismo islamico. In giacca e cravatta, fra i grandi dell’economia e della finanza, il ministro di Sharaa sta tentando di riallacciare i ponti con il resto del mondo, per convincere tutti a investire in Siria. L’emergenza però è quella che il ministro Hasan chiama “la catastrofe”, riferendosi al problema alimentare. L’incognita è rappresentata soprattutto da cosa deciderà di fare la nuova Amministrazione americana di Donald Trump. La settimana scorsa, il nuovo segretario di stato, Marco Rubio, ha detto in audizione al Congresso di non considerare opportuno tenere in piedi un sistema di sanzioni che colpisce un regime che non esiste più. Rubio ha parlato di “un’opportunità da cogliere” con la caduta di Assad e ha lasciato intendere che il secondo mandato di Trump potrebbe essere più assertivo in Siria rispetto al primo. Il presidente uscente Joe Biden ha già deciso una sospensione di parte delle sanzioni e il 18 gennaio Antony Blinken, in uno dei suoi ultimi atti prima di cedere la carica a Rubio, ha deciso delle eccezioni alle sanzioni per i paesi arabi – più Turchia e Ucraina – che intendono fornire beni di prima necessità alla Siria. Ma il grosso delle limitazioni economiche resta ancora in vigore. Il Caesar Act, la cui portata mastodontica era necessaria a colpire il regime, non vieta direttamente l’import e l’export di cibo e medicinali, ma ha reso comunque troppo rischioso, complicato e quindi costoso avventurarsi a commercializzare qualsiasi cosa in Siria. Intanto, anche il resto della comunità internazionale comincia a muoversi. “In questi anni chiunque ha avuto paura di vendere qualsiasi cosa in Siria. In primis il settore bancario, che non autorizza pagamenti perché scoraggiato dalle limitazioni imposte dalle sanzioni”, spiegano fonti diplomatiche al Foglio. 

L’Ue ha annunciato la settimana scorsa un primo pacchetto di aiuti per la Siria pari a 235 milioni di euro, parte dei quali diretta proprio al sostentamento alimentare. Cindy McCain, direttrice del Wfp, è volata a Damasco per incontrare Sharaa e gli ha promesso aiuto, ma ha anche fatto presente che i fondi messi a disposizione degli stati membri scarseggiano – una penuria che colpisce anche le Nazioni Unite – e ciò impedisce di fare quanto sarebbe necessario. “Serve l’intervento degli altri paesi arabi, di quelli del Golfo in particolare – ha detto McCain – Devono capire che questo è il cortile di casa loro e che la sicurezza alimentare significa sicurezza nazionale”. Un avvertimento per molti regimi arabi, che ancora guardano con sospetto e timore ad Ahmad al Sharaa, l’uomo che ha fatto crollare Assad.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.