il discorso del presidente
Perché (e come) Trump rilancia McKinley, il semisconosciuto 25esimo presidente americano
Considerato a lungo dagli storici uno statista mediocre, McKinley ha giocato un ruolo nel rendere gli Stati Uniti una potenza imperiale alla fine del diciannovesimo secolo. Per Trump "ha reso il paese ricco grazie ai dazi e al talento"
A settembre Donald Trump, quando ancora non era certo il suo ritorno a Washington, ha mostrato per la prima volta di conoscere un po’ di storia del suo paese. In un discorso ha citato un capo di stato non molto noto: William McKinley, “un presidente altamente sottovalutato, che con politiche protezioniste di dazi ha reso migliori le vite dei suoi compatrioti”. L’ha rifatto lunedì, tra le statue di presidenti ben più noti al Campidoglio, dopo aver giurato di proteggere la Costituzione. Il monte più alto del continente americano, che si trova in Alaska, riprenderà il nome del 25esimo presidente dopo che nel 2015 era stato cambiato con Dabani, l’antico toponimo nativo che significa “grande montagna”. Sembra quasi una mossa da hipster quella di scegliere come presidente preferito uno che non conosce nessuno, ma i motivi per cui Trump lo preferisce a Jefferson o Lincoln è per via dei dazi, il metodo preferito per mostrare chi è il più forte. McKinley, ha detto Trump, è un presidente che “ha reso il paese ricco grazie ai dazi e al talento. Era un businessman naturale”, cosa che dice anche di sé stesso.
McKinley, repubblicano, deputato e governatore dell’Ohio, teneva in casa un pappagallo di nome Washington Post e si era sposato con una donna a cui aveva rovesciato addosso per sbaglio una torta di fragole. E’ stato considerato a lungo dagli storici uno statista mediocre. Più di recente alcuni hanno però notato l’importanza del suo ruolo nel trasformare gli Stati Uniti in una potenza imperiale alla fine del diciannovesimo secolo. Da presidente investì molto nella Marina e nel suo primo mandato (1897-1901) riuscì a mettere in pratica le ambizioni espansionistiche del governo prendendosi le Hawaii – che poi diventeranno uno stato – Guam e Portorico, che diventeranno territori statunitensi. McKinley andò in guerra con la Spagna per rendere Cuba indipendente – l’isola resterà un protettorato statunitense fino al 1934 – e sempre sconfiggendo gli spagnoli occupò le Filippine. Ampliò di molto la sfera d’influenza di una nazione che fino ad allora si era concentrata soprattutto su territori confinanti, quelli dei pionieri, di indiani e cowboy. Puntò sugli oceani e sull’Asia. Vedendo che gli altri iniziavano a interessarsi sempre di più alla Cina, McKinley decise una politica “open door”, di fatto obbligando le altre nazioni a non interferire con la sovranità cinese, permettendo a ognuno di negoziare liberamente a scopo commerciale. Con McKinley gli Stati Uniti acquistano una maturità imperiale e si siedono al tavolo dei grandi, con Germania, Inghilterra e altre nazioni europee.
Simile a Trump, il 25esimo presidente si candidò in un periodo di scompensi economici (il panico del 1893) e basò gran parte della sua campagna elettorale sugli scambi commerciali come arma diplomatica con le altre nazioni. Attaccò il suo oppositore – il democratico William Jennings Bryan – definendolo un pericoloso radicale e ricevette grossi fondi, da record per allora, dai grandi imprenditori della costa est (se si vogliono trovare altre similitudini con Trump). McKinley diceva che con i dazi i lavoratori e l’industria manifatturiera americana sarebbero stati protetti dalla competizione straniera, e che l’America doveva diventare una grande potenza industriale. Fu facilmente rieletto per un secondo mandato, che però durò poco: un anarchico polacco del Michigan gli sparò con una rivoltella a una fiera a Buffalo. Gli succedette il suo vice, Theodore Roosevelt, che era diventato famoso proprio durante la guerra ispano-americana a Cuba con i suoi Rough Riders, soldati volontari a cavallo entrati subito nell’immaginario americano. Oscurato dal suo assassinio e poi dal suo giovane ed energico successore, oggi McKinley torna come riferimento, anche perché diede un notevole contributo alla creazione del Canale di Panama, altro nuovo pallino trumpiano. L’“America first” urlato ai comizi è stato forse interpretato male in questi anni: non si rifaceva soltanto a l’isolazionismo degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ma anche a un tentativo di ricreare un grande impero americano, che va dalla Groenlandia al Canada, passando per il Canale di Panama.