La via maggioritaria
In America gli elettori scelgono “il meno lontano”. E' da qui che poi si governa
Con un tratto di penna è uscito dagli accordi di Parigi e dall’Oms. Ha consentito a TikTok di non interrompere le attività, ma ha anche liberato il fondatore di un market-place che garantiva privacy e anonimato. Tutto in barba a quel principio di proporzionalità tanto caro e conveniente per le nostre classi dirigenti
Per nostalgia, per convenienza o per convinzioni, le classi dirigenti italiane tendono a essere “proporzionaliste”. Gli elettori si sono abituati al maggioritario, che pure abbiamo avuto in una forma minimamente rigorosa per una decina di anni scarsi. Intellettuali e sottobosco politico rimpiangono l’epoca delle preferenze e si appassionano al su e giù di pochi punti percentuali in sondaggi per giunta sempre più rattrappiti. Forse anche per questo non abbiamo mai compreso il sistema politico americano e ci viene tanto facile volgerlo in caricatura. Come per Trump. Il 47esimo presidente degli Stati Uniti non è un oratore in punta di fioretto, raramente usa giri di parole, ama risultare brutale. I commentatori tendono a ingigantire le più controverse fra le sue dichiarazioni e le usano per cucire un manifesto ideologico coerente e preoccupante assieme.
Pur essendo cresciuti in un paese dove la linea più breve per unire due punti è l’arabesco, non siamo inclini a concedere a Donald Trump il beneficio del dubbio e pensiamo che stia per cominciare una grande lotta fra Bene e Male. Per forza, allora, le prime iniziative del nuovo presidente ci sembrano contraddittorie. Trump ha fornito un’interpretazione controversa del 14esimo emendamento, che ha tradizionalmente garantito la cittadinanza americana a chiunque nascesse nel paese. Con un tratto di penna è uscito dagli accordi di Parigi e dall’Oms.
Ha eliminato buona parte dei vincoli “Dei” (Diversity, Equity and Inclusion). Ma non ha fatto solo questo. Ha costituito il Doge (Department of Government Efficiency). Ha determinato un blocco temporaneo all’emanazione di nuove regolamentazioni e un blocco del turnover per la Pa. Ha tagliato il nastro a una aggressiva regolatory review sui temi energetici. Ha consentito a TikTok di non interrompere le attività, evitando all’ultimo un caso di censura tanto spettacolare quanto inutile. Ha puntellato il primo emendamento stabilendo che “nessuna risorsa del contribuente possa essere utilizzata per svolgere o agevolare qualsiasi condotta che possa ridurre la liberà di parola”. Dal punto di vista simbolico, vale la pena guardare ai perdoni presidenziali. E’ vero che Trump ha graziato i rivoltosi del 6 gennaio. Ma ha pure liberato Ross Ulbricht. Ulbricht aveva fondato SilkRoad, un market-place che garantiva privacy e anonimato, il che consentiva anche di scambiare beni e servizi che si preferisce scambiare restando anonimi.
Aveva costruito una piazza, ma non gestiva le bancarelle. Nondimeno, era stato condannato, in barba a qualsiasi principio di proporzionalità, all’ergastolo senza condizionale, dopo un’inchiesta viziata da molteplici irregolarità più volte segnalate dagli avvocati. Insomma, lo stesso presidente che assimila i cartelli della droga ai terroristi poi grazia quello che, nel racconto dei media, era il re dei trafficanti. Il punto è che Trump sarà pure una creatura che sfugge ai criteri più tradizionali degli analisti politici, ma è un presidente come tutti gli altri. Frutto di un sistema compiutamente e rigorosamente maggioritario, o-di-qua-o-di-là, che porta gli elettori non a scegliere chi sentono più vicino (come dovrebbe fare il proporzionale) ma chi ritengono meno lontano. Il Partito repubblicano di Trump non è quello di Reagan e nello stesso tempo è esattamente la stessa cosa: cioè una coalizione, plurale, di interessi e di sensibilità diversi.
Trump ha e avrà collaboratori protezionisti e di destra “tradizionale”, come con lui lavoreranno neoconservatori e libertari. Libera Ulbricht rispondendo alle sollecitazioni di quest’ultimi, tuona contro i cartelli e fa salivare i professionisti della guerra alla droga. L’elettore non ha scelto lui (o Kamala) illudendosi che fossero la perfetta rappresentazione delle sue idee (ma lo sono, del resto, Fratoianni o Tajani?). Ha orientato il suo voto sulla base della vicinanza che avvertiva sui temi che gli erano più cari. Ha anche votato, e non è il peggiore dei motivi, contro chi gli sembrava più lontano dalle sue sensibilità. Abbiamo fatto del Trump candidato il protagonista dei nostri incubi.
Col Trump presidente sarà meno facile. Perché se anche il suo registro retorico non cambierà, le sue nomine e le sue azioni saranno più refrattarie a una schematizzazione rigida. I protagonisti del proporzionale sono scritturati per portare in scena timori e speranze della propria constituency. Il vincitore di una gara maggioritaria scavalca gli steccati e cerca di far sintesi. La fa direttamente il potere esecutivo, a modo proprio, cercando di prevedere le reazioni dei propri supporter, anziché confidare nelle alchimie parlamentari. Le parole possono andare in una direzione, le azioni devono ricomporre un mosaico di sostegno più complicato della folla ululante col cappellino “Maga”. Trump ci stupirà, per cose che non dovrebbero sorprenderci affatto.
Il presidente-venditore