La caccia agli uiguri della Cina non si è mai fermata
Quarantotto cittadini cinesi dello Xinjiang detenuti in Thailandia da più di dieci anni ora sono a rischio rimpatrio. Il simbolo della spietatezza cinese, anche dentro a una storia più italiana
“Potremmo essere imprigionati o essere uccisi. Facciamo appello a tutte le organizzazioni internazionali e ai paesi che hanno a cuore i diritti umani perché intervengano per salvarci da questo tragico destino, prima che sia troppo tardi”. Una decina di giorni fa l’Ap è venuta in possesso di una lettera scritta da uno dei 43 cittadini cinesi di etnia uigura detenuti da dieci anni in Thailandia, e che le autorità di Bangkok vorrebbero adesso deportare in Cina. La loro vicenda rappresenta la capacità della Repubblica popolare cinese di usare la repressione internazionale e la manipolazione dei media come arma diplomatica e politica.
Per un breve periodo tre, quattro anni fa, il dramma degli uiguri dello Xinjiang, cioè la minoranza musulmana e turcofona che da decenni la leadership del Partito comunista cinese cerca di cancellare con campi di lavoro e detenzione, ha avuto il suo momento di attenzione mediatica internazionale. Testimonianze strazianti, libri, rapporti ufficiali, timide sanzioni da parte dei governi occidentali. Pechino era stata costretta ad ammettere l’esistenza di “campi di rieducazione” giustificandoli con il pericolo del “terrorismo islamico” e del “separatismo”, ma nel frattempo ha continuato a fare quello che stava facendo, aumentando la pressione anche sugli uiguri fuggiti all’estero con le sue tattiche di repressione transnazionale, di cui fanno parte anche gli sgherri delle cosiddette “stazioni virtuali di polizia all’estero”. Nel 2021 Marco Rubio, segretario di stato della nuova Amministrazione Trump, aveva promosso l’Uyghur Forced Labor Prevention Act, che vietava le importazioni in America dallo Xinjiang perché frutto del lavoro forzato. Durante la sua audizione di conferma al Congresso, la scorsa settimana, Rubio ha detto che avrebbe fatto pressioni sulla Thailandia – “un forte alleato americano” – affinché non rimpatri gli uiguri in Cina, dove finirebbero quasi certamente in un campo.
Nel 2014 un gruppo di circa 350 uiguri cercò di oltrepassare illegalmente i confini thailandesi nella speranza di trovare un rifugio sicuro dopo essere scappati dalla persecuzione cinese. Tra di loro c’erano anche dei bambini. Durante la lunga detenzione thai, secondo alcuni gruppi di attivisti, sarebbero morti in cinque, anche un neonato e un bambino di tre anni. La gran parte dei 350 è stata poi rilasciata tranne 48 uomini, che sono ancora detenuti in Thailandia e che Pechino sostiene essere parte del East Turkestan Islamic Movement, riconosciuto come gruppo terroristico anche dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea. Naturalmente la maggior parte delle volte l’accusa è un trucco di Pechino, e gli attivisti chiedono ai paesi che arrestano uiguri su mandato della Cina di fare indagini indipendenti, capire se la repressione è solo politica. Ma la vicenda di questi 48 uiguri da più di dieci anni imprigionati si è aggravata all’inizio del mese, quando le autorità di Bangkok hanno cominciato a parlare di rimpatri e di “ritorni volontari” in Cina. Dal 10 gennaio alcuni di loro sono in sciopero della fame.
La Cina fa pressioni sui paesi con cui sa di poter ottenere collaborazione da questo punto di vista: la Thailandia applica la “politica del bambù”, cioè di flessibilità fra relazioni con America e Cina. Bangkok ha bisogno di Washington come di Pechino, e con il regime di Xi Jinping ha molti negoziati in corso – sul turismo ma anche, per esempio, sulla sicurezza comune e la piaga delle scam city. A maggio del 2022 il Foglio si era occupato della vicenda di Mihriban Kader, scappata da casa sua nello Xinjiang fino a rifugiarsi in Italia con suo marito, un bambino piccolo e quello che aveva in grembo, confidando nel diritto internazionale che avrebbe portato, prima o poi, a far arrivare in Italia anche i suoi altri quattro figli. Che invece sono rimasti per anni in un campo di detenzione. Un anno e mezzo dopo la nostra intervista, né il Foglio né l’avvocato che la seguiva per il ricongiungimento e la richiesta d’asilo sono riusciti più a mettersi in contatto con la famiglia Kader. Sparita nel nulla, come migliaia di uiguri nel mondo. Forse tornati in Cina, volontariamente o meno, o forse troppo esposti.