Un presidente “imperiale”
Tra legge e imposture. Guida agli strapoteri di Trump
Ha già firmato oltre cento ordini esecutivi. Grazia gli invasori di Capitol Hill e giura vendetta ai “traditori”. Ma è nei limiti della Costituzione? La “dittatura del primo giorno” e i rapporti con il Congresso
Ho seguito lunedì pomeriggio l’Inauguration day con Donald Trump che apriva “un nuovo aggressivo capitolo del movimento America First” (così ha scritto il Wall Street Journal). E la notte ho fatto un sogno. Il presidente francese Emmanuel Macron decide di sospendere il trattato di Schengen e chiude le frontiere con l’Italia. Tutte, da Ventimiglia al Monte Bianco. Dichiara in tv che la Francia (cioè egli stesso) è stanca della continua “invasione” di immigrati clandestini attraverso l’Italia, la quale fa di tutto per favorire il flusso e scaricare sugli altri (ovvero su Parigi) i problemi che non è in grado di risolvere. Apriti cielo. Gli strepiti arrivano dal colle più alto e i giornali scrivono che il presidente italiano Sergio Mattarella è furibondo, tanto che decide di convocare il Consiglio supremo della difesa, istituito nel 1950 durante la Guerra di Corea. Venendo meno alla sua proverbiale prudenza Mattarella decide che è arrivato il momento di riprendersi, con le buone o con le cattive, Nizza e la Savoia.
Il Risorgimento è finito da tempo, quel patto del 1860 tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II non può più essere rispettato dalla Repubblica italiana. Da destra si ode uno squillo: la sicurezza si basa sulla forza, lo abbiamo sempre detto. Da sinistra risponde uno squillo: solo la pace dà sicurezza. A questo punto il sogno (o l’incubo) s’interrompe. E’ del tutto campato in aria, però al mattino accendo la radio, spulcio i siti internet e leggo i giornali. Ci sono tante analisi e polemiche su Trump. Niente su Macron e Mattarella. Martedì notte ecco un altro sogno. Il presidente francese (sempre lui il nostro babau in chief) dà ordine alla Banca di Francia e alle principali banche private di liberarsi dei Btp. Mattarella va su tutte le furie, convoca il governatore della Banca d’Italia e gli chiede di emettere un bitcoin denominato Quirinale per proteggere il debito italiano. Solo il presidente e il governatore ne sarebbero garanti, previo via libera del governo. I migliori cervelli economici inorridiscono e paventano la fine dell’euro. I mercati invece reagiscono bene. Un successone, la nuova moneta virtuale guadagna il 10 mila per cento.
E’ facile vedere nell’annunciata riconquista di Panama, nelle mire sulla Groenlandia e sul Canada, nella nuova geografia che cambia nome al Golfo del Messico, le matrici del primo sogno. Il secondo nasce dall’incredibile bitcoin chiamato $Trump. Emesso a 18 centesimi, ha superato i 29 dollari con un aumento del 354 per cento. Anche la first lady si è cimentata con il suo $Melania. Altro che conflitto d’interessi, leggi ad personam, decreto Mammì e tutto quello di cui è stato protagonista Silvio Berlusconi. Il Wall Street Journal in un suo editoriale è partito all’attacco: il presidente non solo non separa interessi privati e pubblici doveri, ma mostra “scarso giudizio”. Il quotidiano posseduto da Rupert Murdoch evoca seri problemi legali: “Dove sono gli avvocati?”, chiede, e ricorda che l’immunità non vale per atti compiuti dal presidente prima di entrare in carica.
La chiave della mia metafora onirica, insomma, è non solo nei doveri, ma nei poteri del capo dello stato. Sono questi che sorprendono e per molti versi spaventano. Nessuno in Europa, nemmeno nella Francia presidenziale, possiede le stesse leve del presidente americano. Trump durante il primo mandato le ha già mosse in modo spavaldo, ma senza manometterle, adesso minaccia di andare oltre. Appena giurato sulla Bibbia sono partiti circa cento ordini esecutivi, i più vari. Gli è consentito dalla Costituzione, ma davvero può usare come vuole le sue prerogative?
La prima cosa da ricordare è che l’inquilino della Casa Bianca, a partire da John Adams che prese il posto di George Washington, esercita il potere esecutivo, ma non fa le leggi, questo potere spetta al Congresso. Il presidente ha facoltà di imporre il veto che può essere respinto con una maggioranza di due terzi. Esecutivo e legislativo sono autonomi, tanto che si parla di “dualismo paritario”: il presidente non può sciogliere anticipatamente l’organo legislativo, mentre il Congresso non può rimuovere, se non con una complessa procedura di impeachment, il presidente il quale, allo stesso tempo capo dello stato e capo dell’esecutivo, non è super partes, ma entra nel gioco politico. La Casa Bianca è al vertice di una gigantesca e complessa burocrazia composta da decine di agenzie, “commissioni”, dipartimenti e quattro milioni di dipendenti, alla quale spesso si contrappongono i singoli stati; guida le forze armate con tanto di valigetta nucleare anche se non può dichiarare guerra; è al comando di una politica fiscale che influenza l’economia mondiale, ma il dollaro è in mano alla Banca centrale, formalmente indipendente (la Federal Reserve). La garanzia finale di equilibrio tra poteri centrali, così come tra governo federale e singoli stati, spetta alla Corte suprema i cui membri sono nominati a vita dal presidente, ma sottoposti al consenso del Senato. Durante il suo primo mandato Trump ha nominato tre giudici (Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett) i quali insieme agli altri tre conservatori, hanno spostato radicalmente l’asse “politico”.
Il dittatore del primo giorno
Ha colpito tutti la quantità e la natura delle prime mosse del Trump II, soprattutto il centinaio di ordini esecutivi. Di che si tratta? Sono in pratica le direttive che indirizzano l’intera Amministrazione. Hanno forza di legge quando gli ordini vengono emessi su delega del Senato (advice and consent, scrive la Costituzione). Tuttavia sono impugnabili per violazione della legge fondamentale della Repubblica. A quel punto comincia un complicato braccio di ferro con l’autorità giudiziaria. E’ già successo durante il primo mandato a partire dalla California a proposito dei limiti all’immigrazione; e delle 246 controversie aperte solo 54 sono state favorevoli all’Amministrazione. Un pensatoio conservatore come la Heritage Foundation ha criticato duramente il ricorso a questi diktat presidenziali, un modo occulto per creare norme giuridiche senza l’intervento del Congresso, oppure modificare norme già approvate esautorando le prerogative costituzionali del Parlamento. Biden ad esempio ha utilizzato il suo potere per l’obbligo della mascherina negli uffici federali durante la pandemia. Franklin D. Roosevelt emise un ordine esecutivo per mandare in campo di concentramento i giapponesi d’America, durante la Seconda guerra mondiale; Harry Truman per proibire discriminazioni razziali nelle forze armate.
Trump si è spinto davvero molto, troppo in là. “Lei vuol diventare un dittatore?”: la domanda è uscita spontanea dalla bocca di Sean Hannity, giornalista dell’amica Fox News che lo intervistava il 6 dicembre scorso. “No, no, no, a parte il primo giorno – ha risposto Trump – Chiuderemo il confine e trivelleremo, trivelleremo, trivelleremo”. Così ha fatto. Durante il primo mandato aveva già provato ad appropriarsi del cosiddetto “libro dell’apocalisse degli Stati Uniti”, cioè i documenti di emergenza presidenziali (Pead) che contengono ordini esecutivi, proclami e messaggi al Congresso. Il contenuto non è disponibile né al pubblico e nemmeno al Parlamento, ma viene condiviso solo in base alla necessità. La rivista Time ha riferito che il personale della Sicurezza nazionale gli aveva impedito di conoscere “l’intera portata di queste interpretazioni dell’autorità presidenziale, temendo che ne avrebbe abusato”. Adesso ha la strada spianata. La dittatura del primo giorno ci porta al rapporto con la magistratura.
Il labirinto giudiziario
La legge è uguale per tutti, ma poi il presidente decide. L’uso della grazia (pardon) può sconfinare nell’abuso. Gerald Ford graziò Richard Nixon, costretto alle dimissioni per lo scandalo Watergate. Adesso siamo arrivati alla grazia in famiglia. Joe Biden ha perdonato in extremis non solo il figlio Hunter, ma fratelli e cognati, poi ha sottratto alla vendetta trumpiana lo scienziato che ha gestito la pandemia, Anthony Fauci, e con lui una serie di funzionari pubblici dei quali il suo successore voleva gli scalpi. Trump a sua volta ha graziato i no vax trasformati in eroi della libertà e quasi tutti i 1.500 assaltatori del Campidoglio, anche quell’Enrique Tarrio, presidente dei Proud Boys, che era stato condannato a 22 anni di prigione, e Ross William Ulbricht, il fondatore di Silk Road, il sito considerato “il mercato nero del web”, condannato all’ergastolo negli Stati Uniti. Ulbricht è stato arrestato dall’Fbi nel 2013 e condannato per traffico di droga, pirateria informatica e riciclaggio di denaro sporco. Su Silk Road venivano venduti illegalmente farmaci, narcotici, armi e documenti falsi usando i bitcoin. Cosa penserà la famiglia di Brian Sicknick, l’agente ucciso il 6 gennaio 2021? E i 140 poliziotti feriti?
Trump non si ferma perché vuol consumare la sua rivincita anche sul potere giudiziario o meglio su quella parte che si è schierata contro di lui, le “toghe azzurre” visto che il rosso è il colore dei repubblicani. Non gli basta di aver ottenuto dalla Corte suprema l’immunità, considera illegittima non solo la sua condanna per la violenza contro la pornostar Stormy Daniels, ma l’intero processo: “La Vera Giuria, il popolo americano, ha parlato rieleggendomi con un mandato travolgente”, un proclama ormai tipico dell’universo populista, ma rimette in discussione un pilastro della Costituzione americana che garantisce l’indipendenza della magistratura. Il presidente può nominare i giudici federali (incluse Corte suprema e Corte d’appello), è il Senato tuttavia che deve dare il via libera. E’ uno dei contrappesi previsti dai padri fondatori.
I senatori possono anche arrivare al blocco di una nomina presidenziale in una corte distrettuale, basta l’opposizione di un senatore dello stato interessato. Il potere giudiziario come terzo braccio del sistema liberal democratico è un contributo teorico e pratico della costituzione americana che, però, è rimasta anche su questo abbastanza generica. Nel 1803 per la prima volta venne stabilito che la Corte suprema può dichiarare incostituzionali gli atti del Congresso e nel tempo la è diventata arbitro tra il potere esecutivo e quello legislativo, limitando di volta in volta l’uno o l’altro. Si è detto spesso che di fatto negli Stati Uniti “la Costituzione è quel che la Corte dice che sia”, e il pendolo della storia è oscillato a seconda che prevalessero i conservatori o i liberal. Ma raramente è stata messa in discussione la probità e l’autonomia dei giudici, nominati a vita non direttamente dal popolo, ma da presidente e Congresso. Dove arriverà Trump?
La presidenza imperiale
I padri fondatori degli Stati Uniti erano appassionati cultori di storia romana, ammiravano la repubblica, si firmavano Cicerone, Catone, Bruto, eroi della battaglia contro Cesare pronto a farsi tiranno. I nuovi padroni americani, invece, sono appassionati dell’Impero. La Costituzione scritta nel 1787 per un paese rurale e semi spopolato, influenzata dai princìpi dell’illuminismo e da uno spirito missionario, è chiara, ma parca se non vaga sui poteri effettivi del presidente che hanno subìto profonde trasformazioni via via legittimate dalla Corte suprema. Si è passati dall’èra del Congressional Government, in cui era evidente l’assoluta centralità del Parlamento nel sistema di governo separato, all’èra del Presidential Government, in cui il baricentro istituzionale si è spostato nettamente creando una progressiva “presidenzializzazione” della forma di governo. Le cose cambiano già dopo la Guerra civile. La prima vera svolta si deve a Teddy Roosevelt, presidente dal 1901 al 1909, ma anche a Franklin Delano Roosevelt (erano lontani cugini), che soprattutto con il New Deal ha trasformato la Casa Bianca nel centro politico e istituzionale del potere.
Si riapre così una questione che si erano posti i padri fondatori: il presidente è un re elettivo? La monarchia era la forma di governo che nessuno voleva, visto il cattivo esempio inglese. Ma c’era pur bisogno di un potere centrale, su questo si era battuto il federalista Alexander Hamilton contro l’autonomista Thomas Jefferson, così nel 1790 si arrivò a un compromesso tra centro e periferia, stati e istituzioni federali, Parlamento e governo. Oggi siamo a una vera e propria “rivincita di Hamilton” in politica interna e internazionale? Non è certo nuova l’aspirazione a fondare una “presidenza imperiale” come la definì in un suo famoso saggio Arthur Schlesinger Jr. Lo storico che era stato un ascoltato consigliere di John Fitzgerald Kennedy, prendeva spunto dalle forzature di Richard Nixon per trarre delle conclusioni generali soprattutto a partire dalle guerre.
Il ruolo del Presidente è via via cambiato anche in politica interna. Accade spesso che egli rediga un disegno di legge per poi chiedere ad alcuni senatori o rappresentanti di promuovere quello stesso disegno all’esame del Congresso; ma anche in altre occasioni fa sentire il suo peso politico nel processo legislativo. Al discorso sullo stato dell’Unione viene allegato in genere un elenco di disegni di legge che determinano le scelte del Congresso. Una volta firmato un provvedimento il capo del governo può aggiungere una dichiarazione nella quale indica come applicare la legge. Lo hanno fatto sia George W. Bush sia Barack Obama suscitando un mare di polemiche. Vedremo presto come Trump vorrà appropriarsi di una parte del potere legislativo. “Noi abbiamo bisogno di una presidenza forte – ha scritto Schlesinger – Ma forte nell’ambito della Costituzione. La democrazia americana deve trovare una via di mezzo tra il presidente zar e il presidente fantoccio”.
La guerra ai confini
E’ al Congresso il potere di guerra e di pace, eppure la Casa Bianca è diventata la vera War Room e il “comandante in capo” non si limita a dirigere e coordinare le forze armate. L’invasione di Panama venne decisa da Teddy Roosevelt nel 1903 senza dichiarazione, lo stesso accadde per l’invasione di Grenada (Reagan nel 1983 litigò con Margaret Thatcher) o il blitz a Panama per prendere Noriega (George H. Bush 1990). Il Patriot Act adottato da George W. Bush dopo l’11 settembre aveva ampliato i poteri di emergenza, ma allora si trattava della “guerra al terrore” e Bush aveva chiamato tutti gli alleati occidentali a partecipare. Oggi di alleati non si parla più e l’èra dei neocon, dell’esportazione della democrazia, è morta e sepolta. L’emergenza al confine meridionale non viola le prerogative del presidente, ma le interpreta a favore di una delle sue priorità: la lotta all’immigrazione e non solo quella clandestina perché nello stesso tempo ha deciso di abolire lo ius soli, tornando al diritto di sangue.
Nel suo comiziante discorso d’investitura Trump non ha citato nessun paese alleato. America First di per sé è una definizione ambigua, può significare America da sola chiusa in se stessa, America leader di un universo unipolare, America che si spartisce il mondo in base a nuove sfere d’influenza. Le sue parole e i suoi primi atti fanno pensare alla prima interpretazione: la riconquista di Panama, il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima e dall’Organizzazione mondiale della sanità, lo stop ai finanziamenti esteri e così via. La vicenda di TikTok apre una finestra sulla terza interpretazione: il social media potrebbe diventare anch’esso una merce di scambio di un negoziato più ampio con Pechino, così sembra anche dopo la telefonata con Xi Jinping prima del giuramento.
Lo storico Liam Neeson ha tracciato su Foreign Affairs un parallelo con Ronald Reagan. Ci sono senza dubbio delle similitudini, ma c’è una differenza fondamentale, non solo perché Ronnie era un liberal sul terreno dei diritti civili, ma perché la sua dottrina, la lotta all’Impero del male, metteva gli Stati Uniti alla guida di uno scontro dell’occidente contro i suoi nemici, a cominciare naturalmente dall’Unione sovietica, anche sul terreno dei valori e degli ideali. Per Trump l’occidente è un nonsense, considera il Canada e l’Unione europea avversari quasi personali, la Spagna fa parte dei Brics, l’Australia non esiste mentre prima era considerata la lancia occidentale in estremo oriente. L’America di Trump pensa ai propri specifici interessi trattando caso per caso per ottenere quel che più giova a se stessa anche se questo lede gli interessi degli (ex?) alleati. La logica amico-nemico di Carl Schmitt, il giurista guru dei nazi, esaltata da Peter Thiel, non si applica al conflitto tra democrazia e autocrazia, ma tra nazione e nazione con gli Usa come nazione dominante.
L’imbroglio delle tariffe
Trump vuole punire Cina, Canada, Messico, l’Unione europea, intende raccogliere con le tariffe i soldi dei nemici e finanziare così il taglio delle tasse. Ecco la grande trovata. Per questo “tariffa è la parola più bella”. Peccato che non siano i cinesi o gli europei a pagare, ma gli americani. Dazi e tariffe non cadono su chi esporta, ma su chi importa il quale o scarica i costi sui prezzi finali e allora genera inflazione, oppure chiude bottega. The Donald ha annunciato un’agenzia dove versare i quattrini dall’estero e la chiama External revenue service per far da pendant con l’Internal revenue service per le tasse federali. Solo che anche quei dollari provengono dall’interno e se fanno aumentare i prezzi riducono lo stesso valore reale dell’imposizione su salari e profitti.
Certo i paesi esportatori potrebbero veder ridurre le loro merci vendute negli Usa, ma non è detto. Possibile che i guru del trumpismo non l’abbiano capito? O ci stanno prendendo per i fondelli? Il dubbio è forte, tanto che per ora lo stesso Trump ha tuonato, ma la pioggia di tariffe non s’è vista: ha firmato una direttiva per come comportarsi al fine di favorire un commercio “equo” e punire i comportamenti scorretti. Non può essere tutto qui. Non ci resta che aspettare. E’ da capire anche come intende muoversi verso la Federal Reserve per influenzare la politica del dollaro. Con l’uso ad ampio raggio dei bitcoin, la valuta virtuale e incontrollata che occupa la zona oscura tra mezzo di scambio e riserva di valore, tra lecito e illecito, il presidente e il suo mago di Oz (alias Elon Musk) intendono creare un sistema parallelo che rimetta in discussione l’autonomia e la funzione della banca centrale. E’ a questo che pensa la “tecno-destra” mescolando gli interessi personali con l’ideologia dell’ala radicale sempre contraria al monopolio statale della valuta. Se tutto questo favorisce il ridimensionamento del dollaro negli scambi finanziari e mercantili non fa il gioco dello Yuan?
I tecno-bonus
La corte di big boss della nuova industria tutti allineati per avere i soldi dei contribuenti è l’immagine forse più nuova e impressionante dell’Inauguration day. Erano partiti dai laboratori della Silicon Valley, si erano finanziati con i “capitalisti di ventura”, avevano applicato la teoria di Joseph Schumpeter, prima inventori, poi innovatori, poi imprenditori, infine oligopolisti, partendo dal mercato per dominare il mercato. E adesso? Diventano concessionari del governo, vogliono autostrade (anche se nell’etere non sulla terra), vogliono portare il business tra le stelle, vogliono far parlare i telefonini attraverso i satelliti, per tutto questo c’è lo zio Sam. La grande partita si gioca non sui sogni marziani, ma sull’intelligenza artificiale. I galli nel pollaio sono già troppi e hanno cominciato a beccarsi. Musk ha attaccato il progetto Stargate battezzato da Trump (un’alleanza tra OpenAI, la giapponese Softbank, Oracle e Mgx, il fondo di Abu Dhabi) che stanzia 500 miliardi di dollari: “Non hanno il capitale”, ha detto. Sam Altman lo ha accusato di mescolare la sua nuova funzione pubblica con l’interesse privato perché Elon si sta facendo la propria IA (i due si odiano e combattono da tempo).
Non è il solo intreccio perverso. L’imprenditore sudafricano viene finanziato dalla Nasa per riportare l’uomo sulla Luna. Solo che finora i razzi di SpaceX scoppiano dopo la partenza, anche se lui non perde l’appalto; la missione viene spostata di anno in anno, il contribuente sogna e paga. Musk ha cominciato con un sistema di pagamento tutto privato (Paypal) poi s’è buttato sull’auto elettrica, la bolla Tesla si è gonfiata a dismisura ed è arrivata al massimo, adesso si ripara sotto l’ombrello di stato. Jeff Bezos ha rivoluzionato la distribuzione delle merci (partendo dai libri), ora anche lui si mette in coda alla Casa Bianca. La guerra in Ucraina e quella in medio oriente alimentano un nuovo complesso militar-industriale che ruota attorno al Pentagono, lo zio Sam stacca gli assegni, il Congresso è intrappolato nel gioco delle lobby al quale prende parte attiva lo stesso presidente. I padri fondatori non lo avrebbero mai immaginato.
Il piatto della bilancia
I pesi e contrappesi funzionano ancora? Un banco di prova fondamentale è proprio la difficile composizione dell’interesse nazionale. Trump ha messo in piedi una strana alleanza tra plutocrazia immensamente ricca (anche se oggi meno autonoma e forse meno potente), ceti rurali, classi disagiate e periferiche, lavoratori della vecchia industria che si sentono minacciati proprio dal trionfo della nuova. Per capire come ci sia riuscito sono al lavoro le migliori menti della politologia, per vedere se reggerà bisogna aspettare che maturino quelle che possono essere definite le contraddizioni in seno al capitale, delle quali si vedono già i primi segni. In che modo reagiranno ai tagli dei finanziamenti pubblici le industrie elettriche che hanno puntato sulle rinnovabili? E gli stati dalla California all’Arizona che hanno costruito enormi centrali solari? “Drill baby drill”, ma il petrolio e il gas americani costano più di quelli arabi, perché dovremmo comprarli, solo per finanziare Trump? La pluralità degli interessi e dei poteri economici, sulla carta difficilmente componibili, può essere di per sé un contrappeso sia pur in negativo.
Il presidente ha la maggioranza in Congresso, ma è la più ristretta dagli anni 30, basta un’ondata di influenza per invertire gli equilibri. Spetta al vicepresidente tenere a bada il Senato (è lui che lo presiede), però Vance non sembra attrezzato, ha già inciampato sulle nomine, e sulla riduzione delle tasse si svolgerà in tempi brevissimi una battaglia senza esclusione di colpi. E’ vero che anche il potere giudiziario si è spostato a destra, tuttavia seppur eletti politicamente i giudici normalmente tengono alla loro integrità. Non solo, come ha scritto l’Economist, “Washington è piena di gente che intende rimanere anche quando tra quattro anni Trump se ne sarà andato”. Ma se ne andrà davvero?