reportage
Auschwitz: qui si protegge il futuro
A ottant’anni dalla liberazione del campo di concentramento, il Giorno della memoria non è vissuto come una commemorazione del passato, ma come la promessa di migliorare il domani. Viaggio nella cittadina polacca di Oswiecim (in tedesco Auschwitz), tra racconti e speranze che il 7 ottobre e la guerra a Kyiv hanno cambiato per sempre
“Quando pronuncio la parola futuro,
la prima sillaba va già nel passato”
(Wislawa Szymborsa, “Le tre parole più strane”)
Oswiecim, dalla nostra inviata. Ci sono posti che vogliono fare la storia, altri che se la ritrovano addosso, come un macigno e non possono fare altrimenti che curvare tutto ciò che li riguarda sotto il peso del passato. Anche l’architettura si trasforma: palazzi, musei, caffetterie sembrano disporsi lungo la schiena di una vecchia stanca, contorta e deformata dal fardello degli anni consumati e dei dolori indimenticabili. La città polacca di Oswiecim è uno di questi posti, il più terribile di questi posti, tanto che addirittura il suo nome è accovacciato e striminzito sotto quello per cui tutti la conoscono: Auschwitz. Eppure Oswiecim è ambiziosa, e alla stazione, appena si scende dal treno, si entra in un corridoio decorato con le immagini di tutte le glorie della storia: la Piazza del mercato con le fondamenta dell’antica città che risale alla dinastia dei Piast, e quindi è segno di lignaggio antichissimo; il castello sul fiume Sola; la residenza neoclassica degli Slebarski; il Palazzo dei matrimoni; la Cappella della famiglia Haller; la macchina che ha preso il nome della città: la leggendaria Oswiecim-Praga, modaiola e lussuosa era il simbolo della rinascita polacca dopo la Prima guerra mondiale; l’hockey in cui la squadra Unia Oswiecim eccelle e qualche anno fa aveva acquistato il centravanti israeliano Eliezer Sherbatov, arrivato in città forte della motivazione di dimostrare al mondo che “esistiamo ancora”; infine, la stazione stessa, che rese Oswiecim uno snodo ferroviario importantissimo, crocevia del carbone tra Cracovia, Katowice e più a ovest Vienna e Berlino.
Ma no, a Oswiecim nessuno viene per la piazza, il castello, la macchina degli anni Trenta, o per l’hockey o per la ferrovia. A Oswiecim si viene perché il nome Auschwitz non si cancella e a ben guardare tutti i segni che indicano quanto possa essere antica la città portano addosso il marchio del male nazista: sotto la Piazza del mercato, che venne chiamata Adolf Hitler Platz, vicino alle rovine della città antica ci sono i resti di un bunker tedesco della Seconda guerra mondiale; e la ferrovia che tanto aveva arricchito la città fino ai primi del Novecento è stata la sua condanna e uno dei motivi per cui i campi di concentramento e sterminio in cui vennero uccisi ebrei da tutto il mondo furono costruiti proprio sulle ambizioni di Oswiecim. Auschwitz ha cancellato Oswiecim per sempre e gli abitanti si dividono tra chi di tanta storia non ne può più e chi invece con rispetto pensa che la città vada tenuta in una bolla, conservata nella sua austerità, rimossa da ogni vezzo storico, e tenuta stretta così com’è: avamposto della memoria. La signora Ania è tra questi ultimi cittadini, è una custode fiera e intransigente di quello che è accaduto durante la Seconda guerra mondiale: “Si sono inventati ogni tipo di museo per distrarre da Auschwitz, come se davvero un visitatore potesse appassionarsi al castello o al resto che la città ha da offrire. Potrebbe, se questo fosse un posto normale, ma non lo è”.
E’ molto severa con la sua città e con i suoi concittadini. “Qui c’è chi vuole discoteche, divertimenti. E’ un errore, questo posto deve rimanere immobile, la memoria si conserva se i segni del dolore sono vivi. Invece abbiamo avuto un governo che impediva di dire ‘campi di concentramento polacchi’”. Ania si riferisce alla legge sull’Olocausto con cui il governo precedente, guidato dal PiS, creò non pochi problemi agli studiosi che facevano ricerca sui massacri di ebrei avvenuti in tutto il paese. “Da quel momento hanno iniziato a esaltare la storia di quei polacchi bravi che hanno cercato di opporsi ai nazisti, di aiutare gli ebrei e tutti coloro che venivano mandati a morire. Sono storie importanti da raccontare, ma diventa scorretto se vengono tirate fuori soltanto per far dimenticare che il male è accaduto qui, anche sotto i nostri occhi”.
La piazza del mercato, dove le fondamenta della città dei Piast incontrano le porte del bunker nazista di Hitler Platz è adornata da molti cartelli. Da una parte, davanti alla residenza degli Slebarski in cui si insediarono gli occupanti tedeschi durante la guerra, una serie di cartelli racconta la storia del patrono, don Giovanni Bosco, e dei miracoli compiuti lungo le strade di Oswiecim; dall’altra invece ci sono le storie di tutti i polacchi che cercarono di resistere al regime, nascosero e protessero gli ebrei, curarono clandestinamente i malati nel campo di concentramento o organizzarono la lotta contro l’esercito occupante: quando i soldati di Hitler si stavano avvicinando alla città, i suoi abitanti, ebrei e non, si misero a scavare avvallamenti per ostacolare l’avanzata, fecero saltare ponti, ma non riuscirono a fermare l’arrivo delle truppe naziste.
Ogni cosa a Oswiecim sembra urlare: non siamo rimasti a guardare passivamente, abbiamo sofferto e abbiamo combattuto. “Crediamo di essere i nostri monumenti, crediamo che basti una statua per metterci in pace la coscienza, invece no, più ci allontaniamo dall’Olocausto più dobbiamo essere attivi nel ricordare”. Ania sembra bloccata nel tempo, ha un’età indefinita, rifiuta di farsi fotografare e di dire quanti anni ha. Ripete: “Abbastanza”. Non specifica abbastanza per cosa, se per ricordare o per ammonire. “Va spiegato ai nostri giovani perché non va bene una discoteca vicino a Auschwitz, non devono smettere di divertirsi, ma questo è un posto che va preservato. Qui è vietato vivere come se nulla fosse accaduto”. Ania si riferisce al fatto che qualche anno fa venne realizzato un progetto per una discoteca da posizionare non certo attaccata a uno dei campi, ma in un terreno che venne comunque ritenuto troppo vicino per un luogo di svago. Ci furono alcuni musi lunghi, si sollevarono le proteste di chi accusava la città di vivere nel passato, ma alla fine gli abitanti capirono. Auschwitz si estende su Oswiecim, la copre in una bolla e i cittadini come Ania stanno attenti che ogni minimo cambiamento non alteri quell’ecosistema della memoria che ogni anno si fa più rarefatto. “Gli ottant’anni della liberazione di Auschwitz sono delle commemorazioni molto diverse rispetto al passato”,
Jochen Böhler, storico e direttore dell’Istituto Wiesenthal di Vienna per gli studi sull’Olocausto percepisce la differenza del posto che la memoria occupa in un’Europa che si è ritrovata a confrontarsi con la guerra e in un mondo in cui l’antisemitismo è in crescita. “Dieci anni fa pensavamo che bastasse commemorare in modo che questi crimini non si ripetessero, ora non basta. Ci rendiamo conto che i valori su cui si basano le nostre società non sono più scontati”, lo storico è molto preoccupato per il ritorno delle destre estreme e lo dice con un riferimento particolare al paese in cui lavora, l’Austria, in cui gli estremisti dell’Fpö stanno per formare un governo in cui saranno loro la maggioranza, e con inquietudine anche per il posto da cui da proviene: la Germania. “Ora che i sopravvissuti all’Olocausto sono sempre meno, bisogna stare attenti a come la storia viene tramandata. Arriverà il giorno in cui ci troveremo a commemorare senza nessun testimone tra noi, a quel punto tutto il materiale che abbiamo raccolto, libri, registrazioni con le loro parole potenti non vanno tenuti in una teca, vanno condivisi con i più giovani. Mi allarma pensare che come commemoreremo in futuro dipenderà dai governi e dalle loro politiche della memoria”.
Böhler sottolinea quanto il ricordo sia legato alla politica e torna all’Austria: “A Vienna il possibile partito di maggioranza ancora non ha attaccato la memoria, sa di avere un cattiva reputazione presso la maggior parte degli austriaci, quindi anche il nostro istituto non è stato toccato, ma siamo consapevoli che è necessario stare all’erta, essere pronti a reagire quando il governo vorrà diventare il custode della memoria e detterà a riguardo la sua politica”. L’istituto per gli studi sull’Olocausto che Böhler presiede è stato fondato da Simon Wiesenthal, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, attivista per i diritti umani e cacciatore di criminali nazisti in giro per il mondo: fu anche indirettamente coinvolto nella ricerca di Adolf Eichmann, che era fuggito in Argentina dove venne catturato durante un’operazione leggendaria del Mossad e portato in Israele. “Per tenere viva la memoria – dice lo storico – bisogna rendere viva l’idea di quello che è successo. Era esattamente lo sforzo di Wiesenthal, che presentava l’Olocausto come un male che può ripetersi, l’esempio di quello che degli esseri umani possono fare ad altri esseri umani. Va ricordato come crimine”.
Oswiecim è inquieta sotto il peso della memoria, forse alcuni suoi abitanti vorrebbero liberarsene, vorrebbero che magari i visitatori iniziassero davvero ad accorgersi che il castello, l’hockey e la piazza valgono il viaggio, ma è impossibile staccare questo posto dal ricordo e le cadenti vie del centro sono tappezzate di foto di Oswiecim ai tempi della guerra. Tra i muri di edifici in ristrutturazione spuntano i disegni con i volti di Giovanni Paolo II e di Martin Luther King che pronunciano frasi che in questo posto hanno un valore proporzionato alla storia. “L’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’imanità”, dice il papa e sotto qualcuno ha aggiunto in stampatello minuscolo una frase: “Anche il silenzio lo è”. “Alla fine ricorderemo non le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici”, dice King sovrastato dalla foto di un ebreo con lo shtreimel in testa. A Oswiecim la comunità ebraica era molto attiva e rappresentava circa il 60 per cento della popolazione, ha costruito e modellato il passato della città e lo sterminio ne modella il futuro: “L’Europa centro orientale e la stessa Polonia sono piene di piccole Auschwitz. Io non credo che sia possibile cancellare la memoria – dice lo storico – puoi cancellare pagine sui libri di storia, ma la memoria rimane e non penso che i posti del ricordo si rassegneranno mai a vivere come se nulla fosse accaduto. Anzi, ci saranno sempre più memoriali, perché quello che è successo nel passato ti cambia la vita: non vedremo il declino dei posti della memoria. Certo, esiste il rischio che un giorno sembreranno distaccati dal passato, può capitare che per qualcuno andare a visitare Auschwitz diventi un’esperienza alla moda di cui parlare agli amici, ma qualcosa gli resterà e nel farlo dovrà sempre confrontarsi con la storia”. La differenza per Böhler oggi sta tutta nel peso che la memoria deve avere nel cambiare il futuro e l’errore è presentare Auschwitz come qualcosa del passato.
La guerra della Russia contro l’Ucraina ha riportato proprio qui, proprio nell’Europa centro orientale l’immagine del dolore dell’occupazione, la paura viva che accada di nuovo. Parlare di crimini di guerra non è più qualcosa di astratto, è vivo, dirompente e lottare in Polonia ha un significato concreto: respingere un possibile attacco di Mosca determinata ad andare oltre l'Ucraina. Il 7 ottobre ha restituito al presente la parola “pogrom”, e quando i miliziani di Hamas hanno invaso Israele per uccidere e rapire, la memoria non è stata un argine, e anzi l’antisemitismo latente e accovacciato in parte della società occidentale è esploso in manifestazioni e boicottaggi con l’accusa a Israele di essere uno stato nazista.
Nel fine settimana Hamas ha rilasciato quattro soldatesse prese in ostaggio dalla base di Nahal Oz. Prima di liberarle le ha costrette a filmare un video in cui in arabo ringraziavano i terroristi per il cibo, le cure e i vestiti; ringraziavano i loro torturatori che in altri video le avevano mostrate sanguinanti per le botte. Poi Hamas le ha fatte salire su un palco per salutare la folla. Le ragazze si tenevano per mano, sorridevano, ringraziavano secondo un copione stabilito e una volta tornate in Israele sono scoppiate in un pianto che si faceva più forte per ogni abbraccio a genitori, sorelle, fratelli, fidanzati e amici. Quello che hanno visto e subìto non verrà reso pubblico a breve, probabilmente la messa in scena di Hamas è parte del ricatto che le soldatesse si sono portate fino in Israele e durerà fino a quando non saranno liberi tutti gli ostaggi. Il palco su cui le ragazze sono state costrette a mettersi in mostra era pieno di scritte in inglese, in una Israele veniva definito nazista.
Gli ultimi tre anni hanno ridisegnato il significato della memoria, posti come Bucha o come Izjum in Ucraina, o i kibbutz colpiti dall’attacco di Hamas sono diventati i luoghi in cui vedere cosa l’uomo può fare all’uomo ancora oggi. "Auschwitz è un simbolo, il più potente dei simboli ed è importante commemorare ancora e ancora cosa è successo qui, per proteggere il bene dal male”, dice Józef Wancer, banchiere polacco, cofondatore, assieme alla Fondazione Gariwo di Milano, del Giardino dei Giusti di Varsavia. Wancer alla memoria della Shoah ha dedicato tutta la sua vita. “Essere indifferenti è pericoloso, anche per questo dobbiamo tenere ai posti delle memoria e capire che con loro non ricordiamo per il passato, ma pensiamo al futuro”. Wancer svela uno dei vizi tipici di chi si chiede a cosa serva commemorare: non è un’azione di rispetto verso la storia, ma di protezione verso quello che deve ancora venire: “L’uomo deve concentrarsi sul futuro: sentire il passato, ma concentrarsi sull’avvenire. I miei genitori, che sopravvissero all’Olocausto fuggendo, lo ripetevano sempre: devi conoscere il passato, ma devi vivere soltanto nel futuro. Avrai sempre quel peso sulle spalle, ma non deve impedirti di costruire la tua vita. La motivazione di vivere sta nel domani”.
I genitori di Wancer scapparono dalla Polonia all’inizio della guerra, oltrepassarono il fiume Bóg che fungeva da confine con l’Unione sovietica cercando il punto in cui era più stretto. Non erano gli unici a fuggire, ma troppi rimasero indietro. “Si rifiutarono di prendere la cittadinanza sovietica, così vennero arrestati dall’Nkvd e mandati nel gulag, nella regione di Komi, vicino alla Finlandia. Lì sono nato io”. La sopravvivenza in un gulag, dice il banchiere, è possibile soltanto se c’è solidarietà, “se siamo sopravvissuti è perché i miei genitori avevano capito l’importanza dello spirito di collaborazione. La base della vita nel gulag era semplice: se non lavori, muori. Si poteva morire di fame, di malattia e in quei momenti il campo magnetico fatto di collaborazione e amore era l’unico rimedio per la salvezza”. Wancer e la sua famiglia sono tornati in Polonia nel 1945, lui aveva circa tre anni, sua sorella cinque anni in più di lui. Varsavia era chiusa, e con i suoi genitori si trasferirono nella parte occidentale della Polonia, nella bassa Slesia da dove i cittadini tedeschi se ne stavano andando: “I confini stavano cambiando e noi andammo a vivere nella parte meno distrutta del paese. Arrivavamo dall’est con i nostri stracci addosso e i tedeschi se ne andavano a ovest ben vestiti. Mia madre mi spiegava che è l’uomo a fare la differenza e che non aveva senso odiare quelle persone solo perché tedesche”. I primi anni di vita di Wancer in Polonia furono pieni di domande, la prima, lacerante e spontanea era: dove sono tutti? “I miei genitori venivano da una famiglia numerosa, con molti fratelli. Chiedevo dove fossero i nonni, dove le zie e gli zii, dove i cugini. E la risposta era: non ci sono più. E allora rincaravo, volevo sapere dove erano le loro tombe. E la risposta era: di loro non c’è più traccia”. Erano scomparsi, nessun segno, nessun corpo, nessuna tomba. Mentre Wancer racconta le sue domande da bambino qualche anno dopo il suo rientro in Polonia, la sua volontà di rintracciare la storia di famiglia e le vite cadute nel vuoto, tornano in mente i parenti delle vittime del 7 ottobre, alcune scomparse, risucchiate dalla terra bruciata, a volte rintracciate da frammenti di ossa.
Le famiglie ebree che tornavano in Polonia dopo la guerra cercavano segni, messaggi, ma non c’era nulla, se non la consapevolezza che chi era rimasto non era sopravvissuto. “L’80 percento della mia famiglia è stato ucciso, non ne era rimasta traccia: gasati, bruciati, fucilati. Scomparsi. All'inizio i miei genitori non volevano parlare, per loro il ritorno doveva coincidere con la rinascita della vita, non volevano ricostruire il passato, incitavano me e mia sorella a guardare al futuro. Mio padre non ha mai voluto parlare, nemmeno mia madre voleva, poi è diventata un vulcano: scriveva e raccontava. Ricordo che quando ero piccolo la vedevo piangere, diceva di piangere di gioia perché tutto era nuovamente possibile”. Era possibile vivere, mangiare frutta, verdura, fare progetti. Il ritorno era anche accompagnato da un’euforia di vita, voglia di vivere, celebrazione di vivere, incredulità di vivere. E assieme a questi sentimenti emergevano le storie del dolore: “Non ricordo il momento esatto in cui sono venuto a sapere di Auschwitz, ma ricordo che un giorno eravamo a casa e qualcuno aveva dato delle scaglie di sapone a mio nonno, accadde un dramma perché venimmo a sapere che era fatto di grasso umano. Ma ancora prima di questo episodio, ho ricordi sparsi. Mio padre aiutava le persone che volevano tornare a vivere in Polonia, in casa c’era sempre un gran via vai e io ogni tanto mi mettevo a sedere in un cantuccio e ascoltavo i racconti di queste persone: quello che avevano patito, chi avevano perso. Molti piangevano, erano smarriti, distrutti. Mio padre, che pure aveva perso la sua famiglia, li confortava, li aiutava a cercare lavoro, un alloggio. Erano persone che non avevano più nulla, ma potevano ricominciare a vivere ed era questo il compito che si era dato mio padre: mostrare loro la strada”.
Tra le lacrime di dolore e quelle di gioia, tra la volontà di sapere ogni dettaglio del passato e di costruire un futuro, la vita dopo le sofferenze era in comunità: “Abitavamo a Bielawa, in attesa di trasferirci a Varsavia, era bella la vita nel nostro appartamento al primo piano”. Tra la frenesia di vivere e il dovere di contare i morti, accadevano momenti di gioia incontenibile: “Ricordo ancora quando una nostra vicina di casa rimase incinta. Era una sopravvissuta e anche suo marito lo era. Lei, come molte donne ebree giovani in buona salute, era stata sottoposta dai nazisti a esperimenti che si pensava l’avessero resa sterile per tutta la vita. Invece un giorno si seppe che era incinta. Iniziò una festa grandissima, non capivo il motivo di tanta gioia, non era certo la prima donna che avrebbe avuto un bambino, sentivo la parola ‘esperimenti’ e non capivo cosa potesse voler dire riferito al corpo di una donna. Mia madre iniziò con calma a spiegare cosa era accaduto ad Auschwitz come altrove, fu così che entrarono a poco a poco nella mia vita i dettagli di cosa avevano patito le persone, famiglie come la nostra, persone della nostra stessa famiglia. Iniziò a insinuarsi in me l’idea che eravamo vivi grazie all’Unione sovietica, che dovessimo molto a Stalin che ci aveva accolti. Non sapevo ancora nulla, capii presto che ero in errore”.
A diciannove anni e con cinque dollari in tasca, Józef Wancer lasciò la Polonia per gli Stati Uniti, iniziò poi la sua carriera da banchiere, ma tornò nel suo paese un po’ per contribuire alla ricostruzione di cui aveva bisogno dopo la fine della Guerra fredda un po’ per coltivare quella memoria senza la quale il futuro non può esistere. “Il mio ruolo come bambino dell’Olocausto è di proteggere il fuoco dell’umanità, è a questo che serve la memoria: è una forza che va mostrata. Il suo valore è nel futuro”.
Alla stazione di Oswiecim, lungo il sottopassaggio in cui è disegnata la storia della città c’è anche l’immagine di un treno, con accanto la scritta: un treno per il futuro. Il cancello con l’iscrizione “Arbeit macht frei” è a soli due chilometri di distanza, quattro minuti in macchina. Lo scorso anno Elon Musk è passato attraverso quella porta. Aveva suo figlio sulle spalle, uscì e disse che si era reso conto di essere stato ingenuo riguardo all’antisemitismo. A un anno esatto di distanza, Musk ha fatto la sua apparizione durante un comizio del partito tedesco di estrema destra AfD, un coacervo di negazionisti, antisemiti, nostalgici che alle elezioni del prossimo mese potrebbe diventare il secondo partito in Germania. Musk ha pronunciato una frase molto illogica, soprattutto se ascoltata da questa parte di Polonia che convive ogni giorno con il ricordo in modo consapevole o inconsapevole, infastidito o giudizioso: “Penso che ci sia troppa attenzione alle colpe del passato – ha detto il miliardario che per il futuro ha una passione sfrenata e contagiosa – dobbiamo andare oltre. I bambini non dovrebbero sentirsi in colpa per i peccati dei loro genitori, persino dei loro bisnonni. Bisogna essere ottimisti ed eccitati per il futuro della Germania”. Ottant’anni dopo, ad Auschwitz non si ricordano le colpe, si ricordano i crimini e la loro fine. Il campo, le sue baracche di mattoni rossi, le stanze della morte, il filo spinato sono stati lasciati dov’erano come atto di resistenza, una promessa vorace al futuro. Non un pianto per il passato.