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Gangs of America alla corte di Trump

Siegmund Ginzberg

Rileggere un vecchio romanzo di fantapolitica di Kornbluth per figurarsi la malavita alla Casa Bianca. Sicuri che sia tutta immaginazione? Nessun presidente aveva reclutato finora una simile accolita di pregiudicati, estremisti e impresentabili

L’America è governata dalle associazioni a delinquere. La sicurezza è affidata alla malavita. Gli stati della costa est sono in mano alla vecchia mafia. Quelli della costa occidentale, della California aperta e progressista, sono in mano al Clan. Gli uni sono bacchettoni, ultra- moralisti, attaccati agli antichi valori della famiglia e dell’omertà. Gli altri sono più moderni, più spregiudicati, più goderecci. Si capisce fin dall’inizio che le diverse branche di criminalità organizzata si sono alleate per convenienza. In realtà non si sopportano. Finiranno col tradirsi e farsi la guerra. Il governo federale non c’è più. Sono fuggiti a bordo della flotta da guerra. Esercitano praticamente la pirateria. Dalle loro basi navali in Islanda e in Irlanda. Gli sarebbe convenuto di più farlo dalla Groenlandia, assai più strategicamente centrale per le rotte marittime, e assai più ricca di materie prime preziose. Ma questo allora non potevano ancora saperlo.

E’ la trama di un romanzo di fantapolitica di Cyril Kornbluth, uno dei grandi della fantascienza americana. Fu pubblicato nel 1953. In piena Guerra fredda. Anzi, di guerra calda, in Corea. Immagina cose a venire nel nostro secolo. Il titolo era The Syndic. Chissà perché, fu tradotto in Italia nei Classici della fantascienza Urania di Mondadori con un altro titolo: Non è ver che sia la mafia. E poi ripubblicato con un titolo ancora più vago: L’era della follia. Possibile che nell’Italia democristiana desse così fastidio la parola mafia? Che poi nell’originale è mob, che sta per banditi, gangster, o per folla di facinorosi. Ma si potrebbe estendere alla folla che assaltò il Congresso il 6 gennaio di quattro anni fa, alle tifoserie delle curve, o ai sostenitori più arrabbiati di Donald Trump

La parabola dei gangster al governo ricorre spesso nelle narrazioni letterarie di cambi di regime improvvisi. Ne La resistibile ascesa di Arturo Ui, scritta nel 1941 mentre era profugo a Helsinki, in attesa di un visto per gli Stati Uniti, Bertolt Brecht ambientava l’ascesa al potere di Hitler e dei suoi compari nella Chicago di Al Capone. Anche in Italia, i potenti hanno sempre sguazzato nell’illegalità. “Sovversivismo dall’alto”, lo chiamava Gramsci. “Ministro della Malavita”: così Gaetano Salvemini aveva tacciato Giolitti e il suo disinvolto uso dei “mazzieri” nelle campagne elettorali in Sicilia. Ma poi venne Mussolini, incomparabilmente più brutale. Le tragedie storiche di Shakespeare traboccano di delinquenti, capibanda che si fanno re. Mao amava leggere e rileggere il classico quattrocentesco sui Briganti. Forse perché gli evocava la formazione del gruppo dirigente della nuova dinastia da lui fondata in Cina. L’ascesa di Trump fa eccezione: in questo caso è la realtà a superare l’immaginazione.

La mafia, nel romanzo di Kornbluth, non ha usurpato il governo. E’ andata al potere sull’onda del consenso popolare, di un’insopprimibile voglia di libertà. Libertà nel senso di farsi gli affari propri, senza troppe regole. La mafia è la libertà dei forti e dei prepotenti. Anche quando finge di proteggere i deboli. Il popolo americano l’ha voluta, l’ha eletta si potrebbe dire. Ecco come la mette il vecchio, saggio e spietato padrino: “Lasciatemi ricordare ciò che il cosiddetto governo [precedente] rappresenta [va]: tasse brutali, soppressione del gioco d’azzardo, negazione dei più elementari piaceri della vita ai poveri e rigida limitazione di questi piaceri per tutti, tranne che per i ricchi, repressione sessuale duramente imposta con leggi penali di sconcertante barbarie, una selva di regolamenti e un’atmosfera generale di coercizione che domina ogni minuto della vita di ogni uomo […] Non si può ingannare la gente in eterno! Quando il popolo ne ha abbastanza di fastidi e di divieti, si ribella con tutta la sua forza. Il popolo chiedeva libertà di scelta, la Mafia e il Clan gliel’hanno data, scaraventando a mare il Governo”.

Tiri la prima pietra chi non avverte in questa tirata echi della campagna e delle promesse elettorali che hanno portato Trump alla Casa Bianca. Era stato lo stesso Trump a evocare, in un suo comizio, Al Capone. “Era un duro, non è vero? Se lo guardavi storto ti faceva saltare il cervello. Ebbene l’hanno incriminato solo una volta. A me hanno incriminato quattro volte…”. 

Ecco come gliela spiega, al giovane protagonista del romanzo, il vecchio capomafia. E’ una lezione di economia.  “Avevano quel che chiamavano laissez-faire, e il sistema ha funzionato fino a quando non hanno cominciato a metterci le mani. Hanno preteso misure protezionistiche, agevolazioni fiscali, sussidi statali. Regole, regole, regole. Sempre per gli altri, mai per sé. Ma siccome i banchieri erano tanti, dappertutto, era inevitabile che ciascuno di loro si trovasse anche nella parte degli ‘altri’, dei tartassati. Così le imposizioni diventarono una valanga, e il governo perse la fiducia della gente. C’era poi una mostruosità chiamata debito pubblico. Non posso nemmeno incominciare a spiegarti cos’era; ti dico solo che si trattava di una cosa scritta su un pezzo di carta che faceva enormemente salire i prezzi. Ecco, che tu mi creda o no, non hanno mai pensato di gettar via quel pezzo di carta o di cancellare quello che c’era scritto sopra. Hanno lasciato che il debito aumentasse fino al punto in cui la gente comune non riusciva più a permettersi le cose piacevoli della vita”.

Nell’America immaginata da Kornbluth non si pagano più tasse. Solo pizzi alla mafia. Assai più ragionevoli, meglio sopportati di quanto lo siano le tasse. Ordine pubblico, polizia morale e assistenza sociale, welfare, sono garantiti dai gangster. Il sistema mafioso riesce a far funzionare persino l’istituzione più costosa e dolente, la sanità. L’America è diventata il paese di Bengodi. Tutti si divertono e fanno quel che gli pare. Si sono tolti di torno i proibizionismi. Non è solo panem et circenses. Alcol, cocaina, spinelli, gioco d’azzardo per tutti. Poco importa se alle scommesse sui cavalli, nelle bische, alla roulette di Wall Street o al gioco delle tre carte delle criptovalute. L’età dell’oro è arrivata. 

Il mio cuore va a voi. E’ grazie a voi che il futuro della civiltà è assicurato. Grazie a voi. Avremo città sicure, finalmente, città sicure, confini sicuri, spese sensate, cose basilari” il modo in cui l’ha messa il re delle scommesse tecnologiche, Elon Musk, nel rivolgersi ai sostenitori di Trump il giorno dell’inaugurazione. Per poi far partire, trascinato dall’entusiasmo, una specie di saluto fascista a braccio teso. Torna il saluto dell’impero romano, il commento a caldo del suo uomo in Italia. Ma no, Musk è autistico, si fa trascinare nei gesti, la successiva correzione. Ma no, tutte balle, la faccenda rientra nel genere comico. Si tratta di un gestaccio automatico, di un riflesso condizionato, come quello del dottor Stranamore nel film di Stanley Kubrick.  

 

                  

 

Nell’èra della malavita, gli americani sono felici nel loro nuovo isolazionismo da destra. Del resto del mondo non devono più preoccuparsi. Si è autodissolto, suicidato. Resistono solo le basi navali e avamposti dei nuovi pirati che battono bandiera a stelle e strisce. Sono la loro Tortuga. L’entroterra dell’Irlanda è diventata una landa desolata dove scorrazzano tribù tornate selvagge, guidate da orride, fanatiche streghe. Si presume lo stesso stia succedendo nel resto dell’Europa. Di cui all’America felice non può importargliene di meno. In Corea si stanno scannando. La Cina è un altro mondo. Figurarsi se si fanno turbare il sonno e la festa da quel che succede in medio oriente. 

Al carismatico capo dei capi mafioso la parola “governo” faceva venire l’orticaria. Così come la parola “moralità”. “Noi non siamo un governo!”, continuava a gridare.  “Noi non siamo un governo. Non dobbiamo pensare in termini di governo! Non dobbiamo pensare in termini di doveri, imposizioni, tasse, entrate fiscali, trasferimenti. Dobbiamo pensare in termini di lealtà, le vecchie lealtà di una volta, che tenevano insieme il nostro sistema…”.

I presidenti americani del tempo che fu si vantavano di scegliere a far parte del proprio governo i migliori, i più capaci. Così facevano, o almeno fingevano di fare, tutti quanti. Così fece Kennedy, che si circondò di personaggi di grande levatura, di un’élite di cavalieri senza macchia e senza paura, di tecnocrati, grandi intellettuali. La sua Casa Bianca veniva chiamata Camelot, come la reggia della tavola rotonda di Re Artù. Anche Nixon si era circondato di personalità di grande spessore. Basti pensare a Henry Kissinger. Ronald Reagan, che era di destra, aveva un vice di tutto rispetto, George Bush padre, un fior di segretario di Stato, George Shultz, e un fior di segretario al Tesoro, James Baker. Imbarcò anche qualche cialtrone. Ma senza volerlo, non perché fossero uomini suoi. Alla Federal reserve tenne Paul Volcker, che era stato nominato da Carter. Non era scontato. Il suo rigore contro l’inflazione non era per niente popolare tra i Repubblicani reaganiani. 

Persino Trump I aveva mostrato un minimo di pudore. Nominò gente del mestiere, che lo avrebbe moderato, frenato (salvo poi farsi dare dei “traditori”, farsi giurare vendetta, tremenda vendetta, dopo aver spifferato quanti danni gli evitarono di fare). Trump II non ha remore. Ha premiato chi gli ha dato una mano a conquistare la presidenza, persone verso cui ha un debito di riconoscenza, chi ha obbedito senza discutere, chi gli garantisce fedeltà, gente che non avrà scrupoli nel comminare le punizioni e vendette personali che ha abbondantemente preannunciato, gente che difficilmente lo contraddirà o gli dirà di no. Non vuole consiglieri. Vuole sicofanti. Non gli importa nulla che giurino fedeltà alla Costituzione. Basta che la giurino e la dimostrino a lui. La volta prima, nel 2016, si era circondato di gente che, secondo il suo punto di vista, l’aveva tradito. Ha detto chiaro e tondo che non intende fare lo stesso errore. Una domanda chiave nella selezione della nuova nomenklatura era se ritenevano che nel 2020 Trump avesse davvero perso, o invece fosse stato sconfitto dai brogli. Un’altra era se l’assalto a Capitol Hill era giustificato. Risposta sbagliata e zac!

Nessun presidente aveva reclutato finora una simile accolita di pregiudicati, estremisti, farabutti, lestofanti, di impresentabili. Hanno dovuto inventare un neologismo, uncomfirmables, inconfermabili dal Senato cui spetta di passare al vaglio le nomine. Qualcuno è già stato impallinato. La prima scelta di Trump a ministro della Giustizia, Matt Gaetz, ha dovuto ritirarsi. Non perché è il suo avvocato, quello che l’ha guidato con diabolica abilità tra i guai giudiziari. Era inseguito da accuse di molestie sessuali e di uso di stupefacenti. Non il massimo per un ministro della Giustizia. La seconda scelta, la bionda ex procuratrice della Florida ed ex difensore di Trump, Pam Bondi, potrebbe passare. Ha negato di essere disposta ad essere strumento delle vendette che Trump minaccia contro i magistrati. Poteva andare peggio: correva voce che la Giustizia fosse stata promessa ad un altro ancora degli avvocati di Trump: Mike Davis, uno che si riproponeva, su X, ancora poche settimane fa, di “trascinare per le strade i cadaveri politici [dei nemici di Trump], bruciarli, gettarli giù dalle mura”, di esporre in gabbia i bambini dei migranti illegali, e di mandare al Gulag i giornalisti nemici. 

 

              

 

A capo dell’Fbi hanno messo Kash Pramod Patel. Uno che ha sempre sostenuto che in tutti questi anni Trump sarebbe stato oggetto di ignobili manovre e sgambetti da parte dei servizi, gelosi del proprio potere e dei propri bilanci, o venduti ai democratici. E’ ossessionato dall’idea che gli apparati del Deep State, dello stato profondo, cospirino per autoperpetuarsi. Ha raccolto le sue denunce in un libro pubblicato sotto gli auspici di Stephen K. Bannon, dalle cui teorie cospirazioniste pende la destra mondiale, compresa quella di casa nostra. Già il titolo la dice tutta: Government Gangsters: The Deep State, the Truth, and the Battle for Our Democracy (Post Hill Press, 2024). 

Tra gli altri impresentabili, il no vax Robert F. Kennedy Jr., uno che vorrebbe abolire addirittura i vaccini antipolio è candidato al ruolo di ministro alla Sanità. Pete Hegseth, uno che ha le stesse idee del generale Vannacci sui gay, è designato a capo del Pentagono (budget da 800 miliardi, 3 milioni di dipendenti). E’ inseguito da accuse di molestie sessuali, i senatori lo stanno rosolando a fuoco lento sugli scheletri nell’armadio. E’ puro teatro. Quando, nella seconda metà degli anni 80, passai a fare il corrispondente da Pechino a New York, trascorrevo i tardi pomeriggi (la notte in Italia) a guardare imbambolato le udienze per la conferma in diretta tv, sulla Cnn. Uno solo, il sanguigno senatore del Texas, John Tower, candidato al Pentagono, fu bocciato perché alzava troppo il gomito. Un altro, il giudice Clarence Thomas, sembrava fritto di fronte alle circostanziate accuse di improprietà maschilista da parte di una delle sue collaboratrici. E’ ancora alla Corte Suprema.  

C’è poi la pattuglia di plurimiliardari. Con Elon Musk in testa, chiamato a salvare dalle pastoie burocratiche un governo da cui si attende scelte rapide a favore dei propri affari. O Scott Bessent, il candidato a Segretario al Tesoro, il quale, interrogato dai senatori, gli ha appena spiegato che la sua priorità assoluta sarà mantenere gli sconti fiscali per i super ricchi. Si accettano scommesse: che questi e altri “inconfermabili” saranno confermati. Indipendentemente dalle magagne che pesano sulla loro reputazione. Prima o poi si ammazzeranno tra di loro. Non sarebbe la prima volta tra cosche rivali. Hanno cominciato a farsi le scarpe l’un l’altro già nel momento in cui, alla gran festa dell’inaugurazione, si abbracciavano. 

Ma la nomea di malaffare non ha mai rappresentato un ostacolo. Anzi. Fa premio solo la fedeltà al capo. Poco ci manca che gli chiedano prova di criminalità, come si usava per i riti di affiliazione a mafia e camorra, o alle gang di quartiere. Per esercitare la prerogativa di “parere e conferma” sulle nomine presidenziali si vota a maggioranza. E la maggioranza ce l’hanno loro. Alexander Hamilton, padre fondatore della democrazia americana, riteneva “improbabile” che per il potere esecutivo impersonato dal presidente fosse “praticabile corrompere o sedurre la maggioranza dei membri del Senato”. Si riferiva al vaglio della condotta di chi è nominato a incarichi di governo. Altri tempi.