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Due lezioni per l'Europa dallo scontro sui rimpatri tra Usa e Colombia vinto da Trump

Luciano Capone

La guerriglia social del colombiano Petro, che annunciava una resistenza all'ultimo sangue e dopo poche ore si è piegato, mostra all'Ue come negoziare con Trump per evitare i dazi: offrire una soluzione e preparare ritorsioni credibili

La crisi-lampo sui migranti tra Stati Uniti e Colombia è molto istruttiva per l’Europa su come affrontare le richieste e i metodi di Donald Trump quando si dovrà parlare di dazi. Come primo segnale dopo le elezioni contro l’immigrazione illegale, l’Amministrazione Trump ha aggiunto l’uso di aerei militari per i rimpatri a quelli tradizionali dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice). I nuovi voli sono stati annunciati sui social network della Casa Bianca pubblicando una foto degli immigrati irregolari in catene mentre salgono su un C-17. Il governo colombiano aveva autorizzato due voli militari per il rimpatrio di cittadini colombiani ma poi, mentre erano nei cieli, ha negato l’atterraggio. Così i due C-17 dell’Air Force sono dovuti tornare indietro. Il diniego era stato annunciato sui social dal presidente della Colombia Gustavo Petro, un ex guerrigliero della sinistra radicale: “Non autorizzo l’ingresso nel nostro territorio di aerei nordamericani con migranti colombiani – ha scritto su X –. Gli Stati Uniti devono stabilire un protocollo per il trattamento dignitoso dei migranti prima di accoglierli”.

Già altri paesi, come l’Honduras e il Brasile, dopo aver accettato i primi voli, avevano protestato per le condizioni poco dignitose dei migranti. Ma il blocco della Colombia è stato visto a Washington come un affronto: in primo luogo perché dei protocolli già esistono e il trattamento degli immigrati espulsi – alcuni con profilo criminale – con catene e manette è lo stesso applicato da sempre per questioni di sicurezza (lo scorso anno, con l’Amministrazione Biden, la Colombia ha accettato circa 120 voli analoghi); in secondo luogo perché Bogotà aveva autorizzato gli aerei militari americani e poi li ha costretti a un umiliante rientro. La risposta di Trump non si è fatta attendere: poco dopo, su un altro social (Truth), ha annunciato immediate misure ritorsive durissime: dazi del 25% su tutte le importazioni dalla Colombia, da alzare dopo una settimana al 50%; divieto di ingresso e revoca dei visti per tutti i dirigenti governativi colombiani, i familiari e sostenitori; sanzioni finanziarie. “E questo è solo l’inizio”, ha concluso Trump.

Petro ha replicato prima con un comunicato, che sembrava una mezza marcia indietro, in cui disponeva l’immediato invio dell’aereo presidenziale per andare a riprendersi i cittadini colombiani espulsi; e subito dopo con un lungo post su X in cui si diceva pronto a combattere contro l’imperialismo statunitense e, evocando il presidente cileno Salvador Allende, a resistere a un colpo di stato orchestrato da Trump: “Muoio nella mia legge, ho resistito alla tortura e resisto a te. Non stringo la mano agli schiavisti bianchi”, dice Petro annunciando per ritorsione dazi del 50% contro gli Stati Uniti. Il piccolo problema è che gli Stati Uniti rappresentano oltre il 25% dell’export della Colombia, mentre la Colombia meno dell’1% dell’export statunitense. Per il paese sudamericano una guerra commerciale con il suo principale e ricco mercato è un suicidio. Così la strenua resistenza di Petro dura poche ore. In serata la Casa Bianca scrive in un comunicato che i dazi sono sospesi perché la Colombia ha accettato tutte le condizioni dei rimpatri, inclusi i voli con gli aerei militari. Contemporaneamente, il ministro degli Esteri colombiano annuncia un viaggio a Washington e dice che il paese continuerà ad accettare i rimpatri.

Da questa vicenda emerge qualche lezione per l’Europa. In primo luogo, è controproducente imbattersi con Trump in uno scontro frontale e ideologica. Per Trump i dazi non sono un fine ma un’arma negoziale per piegare la controparte: nel caso dell’Europa non sull’immigrazione, ma su un riequilibrio della bilancia commerciale. Bruxelles può offrire qualcosa a Washington per evitare i dazi e una guerra commerciale. Come ricordano Moreno Bertoldi e Marco Buti in un’analisi dell’Ispi, nel 2018 la Commissione Ue con Juncker si impegnò ad acquistare dagli Stati Uniti più gas naturale liquefatto (Gnl) e soia: la strategia funzionò e la minaccia di dazi sull’automotive rientrò. All’Europa il Gnl serve ancora e, al posto della soia, si possono affiancare investimenti nella difesa (altro tema, insieme all’energia, su cui batte molto l’Amministrazione Trump).

In secondo luogo, in una trattativa muscolare come quella che si prevede, per essere credibile l’Europa deve parlare con una sola voce e predisporre contromisure incisive. Nel 2018 furono i dazi selettivi contro prodotti americani simbolici come jeans Levi’s, Harley Davidson e whisky. Allora funzionò ma stavolta forse non basta: servono ritorsioni che colpiscano i punti più sensibili per il governo americano, magari nei servizi dove gli Stati Uniti sono in avanzo.

L’Europa deve insomma sedersi al tavolo con Trump disposta a dialogare (come ha mostrato la premier Giorgia Meloni), ma con una deterrenza credibile (come ha detto il probabile futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz), seguendo cioè il motto del presidente americano Theodore Roosevelt: “Parla gentilmente e portati un grosso bastone”. Il contrario della strategia del colombiano Petro, che ha fatto la voce grossa senza avere nulla in mano.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali