L'intervista
Il dissidente cubano Ferrer García ci racconta la sua lotta contro il regime
“Ogni volta che sente una forte pressione popolare, il regime aumenta la repressione per costringere la gente ad andarsene. La situazione è così drammatica che crediamo di essere abbastanza vicini alla fine”. Le parole del leader della Unione patriottica di Cuba, arrestato più di cento volte
Considerato oggi il più importante leader del dissenso a Cuba, classe 1970, José Daniel Ferrer García è stato arrestato più di cento volte, è stato condannato nel 2003 a 25 anni di carcere come esponente del progetto Varela, che puntava a un ritorno al pluralismo sfruttando la possibilità di leggi di iniziativa popolare in teoria garantita dalla Costituzione. Liberato nel 2011, è stato condannato di nuovo a quattro anni e mezzo nel 2019, rilasciato dopo sei mesi, riarrestato l’11 luglio del 2021 per aver preso parte alle proteste contro la cattiva gestione della pandemia di Covid, e liberato lo scorso 16 gennaio nell’ambito di un accordo con Stati Uniti e Vaticano per il rilascio di 533 prigionieri politici in cambio della rimozione di Cuba dalla lista americana dei paesi promotori del terrorismo.
“Il 16 settembre nel carcere di Mar Verde, a Santiago de Cuba, mi hanno detto che avevano deciso di concedermi il beneficio della libertà vigilata – racconta Ferrer García al Foglio – Ho detto loro che non la accettavo, perché non avevo commesso alcun crimine. Ero stato imprigionato per aver difeso la libertà e la democratizzazione di Cuba, e quindi accettavo solo la completa, totale libertà. Mi hanno allora minacciato, mi hanno persino fatto un avvertimento formale: se non avessi rispettato i requisiti della libertà vigilata, avrebbero potuto processarmi di nuovo e portarmi di nuovo in prigione. Ho detto loro di risparmiarsi tutti questi tramiti e di lasciarmi in prigione, dove sarei rimasto volentieri finché la tirannia non fosse caduta. Mi hanno detto che era una decisione già presa, e che dovevo andarmene comunque. Li ho avvertiti che quando Cuba sarebbe tornata alla democrazia proprio per le gravi violazioni dei diritti umani di cui sono responsabili sarebbero stati giudicato da tribunali imparziali, indipendenti e giusti, e sarebbero finiti in prigione. Potevo però anche dargli la buona notizia che non sarebbero stati costretti a suicidarsi in carcere, né avrebbero dovuto soffrire le terribili condizioni che oggi impongono non solo ai prigionieri politici, ma alla popolazione carceraria in generale. Avrebbero avuto cibo sufficiente, cure mediche e un’igiene adeguata, e non si sarebbero trovati in prigioni che sembrano lager nazisti. Allora le guardie carcerarie mi hanno portato fuori e mi hanno detto di andarmene. Gli ho ripetuto che volevo tornare in prigione. Mi hanno risposto che non era possibile. Gli ho chiesto di avere indietro i miei libri, i miei quaderni, le foto di famiglie, le mie masserizie, la mia biancheria intima. Mi hanno detto di no, e che mi avrebbero consegnato tutto a casa. La mia scorta di generi alimentari avevo fatto in tempo a regalarla agli altri prigionieri, che avevano molta fame. Non mangiavo il pessimo cibo del carcere, sia per motivi di igiene sia per il fondato sospetto che potesse essere drogato. Nei primi quattordici mesi non mi avevano permesso di avere né carta, né penna e né matite, ma poi dopo varie proteste vi avevo avuto accesso, e avevo scritto molto. Hanno detto che avrebbero controllato tutto prima di farmi avere questi scritti, ma ancora non mi è arrivato niente”.
Sembra che comunque la scarcerazioni non stiano continuando “Sono anzi ripresi gli arresti – dice Ferrer García – Tornato a casa con mia moglie e il mio bambino più piccolo sono stato coinvolto in un turbine di lavoro: interviste, vedere gli attivisti, aiutare gente che vive in strada e non ha da mangiare. Mia moglie, che è medico, li assiste. Ma gli organi repressivi stanno minacciando chi mi viene a trovare, e dicono che chiunque entrerà a casa mia due volte sarà arrestato. In questo momento c’è Vladimir Martín Castellanos in sciopero della fame perché lo hanno arrestato quando è venuto a casa mia e gli hanno preso il telefono, i soldi che aveva e una carta di credito. Sta reclamando il suo telefono perché per noi è tutto. Essendo la nostra una lotta non violenta, le nostre armi sono le idee, e il telefono è lo strumento principale per diffonderle. Le scarcerazioni si sono fermate poco dopo il centinaio. Dal 19 gennaio non è stato rilasciato più nessuno, e il 20 Donald Trump ha annullato la misura di Joe Biden per togliere Cuba dalla lista degli sponsor del terrorismo”.
Detenuti politici a parte, le notizie che arrivano da Cuba sono di un peggioramento continuo della situazione. Continui blackout, record di migranti: “Sì. Di fronte alla fame e alla miseria la soluzione di sempre più famiglie cubane è andare alla ricerca di libertà e opportunità altrove – continua il dissidente cubano – Ma ciò ha reso difficile il processo di democratizzazione. Il regime, ogni volta che sente una forte pressione popolare, aumenta la repressione per costringere la gente ad andarsene. Negli ultimi tre anni e mezzo il numero di migranti ha superato il milione, e si avvicina al milione e mezzo. Sono persone che non sopportano più il regime, ma hanno paura di affrontarlo. Quelli di noi che invece hanno deciso di restare e combattere devono in continuazione ricominciare il processo di formazione di nuovi attivisti. Ma ormai anche molti funzionari del regime non ce la fanno più. In conclusione, la situazione è così drammatica che crediamo di essere abbastanza vicini alla fine, in modo di poter fare di Cuba quello che Cuba avrebbe sempre dovuto essere: una nazione con tutti e per il bene di tutti, come diceva l'apostolo della nostra indipendenza José Martí”.
Ferrer García è leader della Unione patriottica di Cuba, che “è nata il 24 agosto 2011, pochi mesi dopo la mia liberazione. Avevo trascorso in carcere otto anni, di cui sei in totale isolamento. Ho avuto molto tempo per pensare ai passi che avrei intrapreso se un giorno mi avessero rilasciato. Fui infine scarcerato grazie a una trattativa tra l’allora governo socialista spagnolo di José Luis Rodríguez Zapatero, la Chiesa cattolica cubana e il regime di Raúl Castro. Pochi mesi dopo fondai quello che sarebbe diventato il movimento con più attivisti del paese. Abbiamo avuto una forte crescita fino al 2016 quando, dopo il congresso del Partito comunista, decisero che eravamo diventati pericolosi, e iniziarono a imprigionare decine di noi. Lì, anzi, iniziò la politica di ingiungere agli attivisti di lasciare il paese per non essere imprigionati. Nel 2019 hanno deciso di decapitare l’organizzazione, imprigionandomi. Dopo sei mesi di torture e percosse, per via delle pressioni internazionali mi hanno non tanto liberato, ma mandato ai domiciliari, per un anno e tre mesi. Quando l’11 luglio 2021 sono sceso in strada mi hanno arrestato di nuovo, e sono rimasto dentro tre anni e mezzo”.
E’ stato anche minacciato con la pena di morte: “Sì, a partire dal 18 marzo 2003, con l’ondata di repressione nota come la Primavera nera di Cuba, il procuratore provinciale di Santiago de Cuba Bileardo Amaro Guerra chiese per me la pena di morte. Un tenente colonnello di nome Cámara, due fratelli ufficiali della polizia politica di nome Ramiro e Fernando Tamayo, uno psicologo di cognome Lamar mi dissero che mi sarei salvato la vita solo se avessi lasciato il paese, altrimenti arei stato fucilato. Gli risposi che preferivo la fucilazione che tradire la causa a cui avevo aderito. Altre volte hanno usato criminali comuni e malati mentali per attaccarmi. Gli hanno detto di non preoccuparsi, che se mi avessero pugnalato avrebbero dato loro una pensione a vita. Hanno anche messo sostanze tossiche nel mio cibo: per fortuna me ne sono accorto in tempo. Abbiamo purtroppo un nemico senza scrupoli, che è pronto a tutto pur di mantenere il controllo totale del nostro paese e continuare a tenere i cubani come schiavi. Tre nostri attivisti sono morti in carcere a causa della brutalità del regime, ma ci sono anche altre organizzazioni che hanno perso attivisti. Emblematico il caso di Orlando Zapata Tamayo, morto durante un lungo sciopero della fame per non aver ricevuto la assistenza medica dovuta”.